Il VII Vertice delle Americhe, in corso a Panama, dovrebbe concludersi oggi senza un documento pubblico che spieghi gli accordi raggiunti sui diversi punti in discussione. Non si è trovato consenso sulla premessa «perché conteneva annotazioni un po’ più politiche», ha detto la ministra degli Esteri di Panama, Isabel de Saint Malo.

La sordina è stata messa dagli Stati uniti soprattutto sui punti che riguardano l’ambiente, la democratizzazione della salute e l’abolizione delle sanzioni imposte al Venezuela. Questa decisione è stata definita dal presidente boliviano Evo Morales, «il peggior errore» che abbia potuto commettere Obama: il quale – ha aggiunto – «potrebbe impiegare il potere degli Usa per costruire un’America latina di pace e giustizia sociale, invece di imporre progetti neoliberisti e neocoloniali». Di solito, nei summit, le questioni di sostanza si risolvono negli incontri bilaterali preliminari. Da quelli che si sono svolti fra il ministro degli Esteri cubano Bruno Rodriguez e dal segretario di Stato Usa, John Kerry, ci si aspettava l’annuncio che Cuba sarebbe stata tolta dalla lista nera dei «paesi che finanziano il terrorismo» in cui è stata inclusa dal 1982.

Una disposizione tanto più assurda ora che Cuba e Venezuela stanno facilitando i dialoghi di pace tra il governo colombiano di Manuel Santos e la guerriglia marxista. Il dipartimento di stato ha «raccomandato» alla Casa Bianca questo indirizzo, e in caso di un parare positivo, il Congresso avrebbe 45 giorni di tempo per pronunciarsi. Ma a mettersi di traverso ci sarebbero i soliti senatori Roger Rubio e Bob Menendez (ora inquisito per corruzione), gli stessi che hanno prodotto il decreto di sanzioni al Venezuela. Cuba è disponibile a seguire un’eventuale agenda prospettata dall’Organizzazione degli Stati americani (da cui è stata esclusa), ma non a rientrare nell’organismo, né a subire ricatti. Al momento in cui scriviamo, a Panama, non è stato annunciato neanche l’incontro di Raul Castro con Obama. I due si sono parlati per telefono.

Il tema del summit – Prosperità con equità: la sfida della cooperazione nelle Americhe – è stato articolato sulla base di dati e cifre che quantificano le disparità esistenti nell’emisfero, soprattutto in quei paesi in cui non spira ancora il vento del cambiamento. In America latina, 67 milioni di persone vivono in povertà, e il 30% è costituito da donne che non hanno autonomia economica. Lo ha ricordato Alicia Barcena, Segretaria esecutiva delle Commissione economica per l’America latina e i Caraibi (Cepal) nel suo intervento al Forum dei rettori.

Un indirizzo sostenuto dai paesi che si richiamano al socialismo del XXI secolo, venuti a proporre una «relazione fra pari»: allo scopo di convogliare le risorse verso il benessere dei cittadini e non nell’acquisto di armamenti per difendersi dagli attacchi esterni o da quelli della popolazione vulnerata. La proposta avanzata a Obama dall’Unasur – il ritiro di tutte le basi Usa dall’America latina, dichiarata a più riprese «zona di pace» – qualifica la natura sovrana e non asimmetrica delle relazioni auspicate dal «nuovo continente». Il 18 aprile 2009, durante il V vertice delle Americhe a Trinidad e Tobago, l’allora presidente della repubblica Bolivariana del Venezuela, Hugo Chavez, ha regalato a Obama una copia del celebre saggio di Eduardo Galeano, Le vene aperte dell’America Latina.

Lo scopo era quello di indicare a Washington una via diversa da quella basata sulla rapina, sul colonialismo, e sul disprezzo per i percorsi democratici dell’«altra» America. Allora, le dichiarazioni di Obama avevano lasciato intravvedere una speranza. L’aspettativa fu frustrata dal golpe in Honduras compiuto contro il presidente Manuel Zelaya, «colpevole» di aver voluto aderire all’Alleanza bolivariana per i popoli delle Americhe, ideata da Cuba e Venezuela. Un golpe ispirato e sostenuto dagli Usa.

Tantomeno venne smantellata la IV Flotta del Comando Sud, ridispiegata da Bush nel 2008, né cessarono le operazioni destabilizzanti contro i governi non graditi a Washington, come mostrerà il Datagate, e poi l’attacco crescente all’autonomia del Venezuela. Cuba ha però fatto presente che non fornirà agli Usa l’alibi per nuove sanzioni al Venezuela. Il presidente Maduro, ha portato al vertice quasi 14 milioni di firme, raccolte in tutto il mondo contro il decreto di sanzioni, emesso da Obama il 9 marzo.

Prima di volare a Panama, il suo omologo boliviano, Evo Morales, si è recato in Venezuela per accompagnarlo, simbolicamente, nel viaggio verso Panama. «Il Venezuela è una minaccia straordinaria per la sicurezza nazionale», ha dichiarato Obama. E ora, messo di fronte alla reazione compatta di quel continente in cui conta di fare ancora molti buoni affari (anche alcuni dei suoi principali puntelli, come la Colombia, si sono schierati a favore del Venezuela), sta cercando di fare una parziale e apparente marcia indietro. Dice che il Venezuela non è una minaccia. Accusa la rigidità del linguaggio burocratico, ma con quello stesso linguaggio ribadisce il sostegno alle destre venezuelane.

Dopo aver accolto le firme come «una vittoria della rivoluzione socialista bolivariana», Maduro ha chiesto però al suo omologo statunitense di far seguire alle parole ai fatti e di annullare il decreto. Dentro e fuori dal summit, le destre sono insorte: se il vertice si chiude senza accordo – hanno detto – è colpa di Maduro. E ieri, l’unica «dichiarazione di Panama» sembrava quella dei 25 ex presidenti di destra che, dalla Spagna all’America latina, chiedono di riportare indietro «l’orologio della storia».