Lo studio Mossack Fonseca aveva clienti provenienti da 204 nazioni. I paesi membri dell’Onu sono 193. Nei documenti ci si riferisce a ben oltre 200.000 società. Confindustria, l’associazione di imprese più rappresentativa di un paese del G8, ne conta meno di 150.000. Più di undici milioni di documenti. Il tutto riferito a uno studio legale di Panama. Uno. Per quanto fossero bravi, parliamo di un solo studio legale. Quanti saranno, solo a Panama? E parliamo di avvocati; ci sono poi commercialisti, notai, consulenti finanziari, i broker specializzati in operazioni offshore e chi più ne ha più ne metta.

E ovviamente non c’è solo Panama. Sicuramente una destinazione molto rinomata per la “discrezione” con cui tratta i clienti più facoltosi e i loro malloppi, ma i paradisi fiscali sono molti, ma molti di più.

La nostra Agenzia delle Entrate, nell’ultima versione pubblicata della “black list”, ne elenca oltre 50, praticamente in ogni continente e a ogni latitudine. E teniamo conto che per evidenti motivi diplomatici il Delaware negli USA, la City di Londra o l’Olanda, solo per fare alcuni esempi, non sono inclusi in questa lista, anche se reti internazionali come il Tax Justice Network li considerano tra i più importanti paradisi fiscali del pianeta. E sono posti in cui gli studi di avvocati e consulenti non mancano di certo.

Sarebbero quasi da compiangere, questi poveri studi legali. Possiamo solo immaginare la concorrenza spietata per annoverare tra i propri clienti non il famigerato “1%”, ma quell’1% dell’1% che è il vero obiettivo di tali intermediari. Chiaro che vista la concorrenza è poi difficile andare tanto per il sottile: rockstar o dittatori, capitani di industria o mafiosi, fa poca differenza. Pecunia non olet.

Anche perché basta farsi un giro su internet per capire che non ci sono unicamente i grandi studi di avvocati.

Oggi con poche centinaia di dollari chiunque può aprirsi la propria società di comodo. Un sito a caso tra le centinaia che si trovano in rete propone di crearvi una società alle Isole Vergini Britanniche o ad Anguilla per circa 1.000 euro l’anno, anche meno per approdare alle Seychelles o in Belize.

Panama, come Gibilterra o le Bahamas è forse un poco più cara, ma è comunque una destinazione ormai alla portata di ogni bravo calciatore o criminale degno di nota. Prezzi di assoluta convenienza anche per avere per la propria società un direttore designato, ovvero un prestanome utilizzato per garantire il massimo livello di confidenzialità e per fare risultare controllo e gestione dell’impresa al di fuori del Paese di residenza.

Siti che spiegano con dovizia di particolari dove è meglio stabilirsi a seconda dell’operazione che interessa.

Se si vuole eludere il fisco c’è un dato paradiso fiscale, se si chiede l’anonimato un altro, per creare una società di comodo un altro ancora.

E’ il libero mercato, bellezza. Un mercato che offre evasione fiscale, segretezza, riciclaggio, impunità. Ogni paradiso fiscale si specializza in poche specifiche operazioni, una vera e propria nicchia commerciale e professionale, in modo da essere il più bravo ad attrarre una fetta degli sterminati capitali alla continua ricerca di un porto sicuro.

Se questa è la situazione, non è possibile fare nulla? Al contrario, sarebbe possibile intervenire in maniera efficace, ma occorre cambiare completamente approccio rispetto a quello seguito fino a oggi.

Prima di tutto, smettiamola di guardare unicamente il lato “offerta”, concentrandoci sull’isoletta tropicale di turno.

Iniziamo a guardare la “domanda”: chi beneficia dell’esistenza dei paradisi fiscali? Da dove provengono i capitali che vi affluiscono? E’ possibile intervenire in casa nostra? La risposta è si.

Ad esempio chiedendo alle multinazionali di pubblicare i propri dati di bilancio suddivisi per ogni giurisdizione in cui operano. Si chiama rendicontazione paese per paese.

Oggi le imprese devono riportare nei propri bilanci unicamente dati aggregati. In questo modo è impossibile sapere cosa avviene in ogni paese, e in particolare se le imprese pagano le tasse dovute per le attività di produzione e commercio e per i profitti realizzati.

Una situazione a dire poco paradossale: le multinazionali pubblicano i propri bilanci come un’unica entità, ma pagano – o non pagano – le tasse come se fossero tante realtà distinte quanti sono i paesi in cui operano.

Ancora, da anni si segnala la necessita di determinare il reale beneficiario di ogni società in modo da evitare anonimato e scatole cinesi che sono sinonimo di riciclaggio e criminalità organizzata.

Anche grazie all’impegno delle reti della società civile, queste e altre proposte sono finalmente entrate nell’agenda politica.

Proprio in questi giorni la Commissione Europea sta lavorando a una normativa per la rendicontazione paese per paese.

Il rischio, per l’ennesima volta, è che le solite manine riescano a indebolire e annacquare le proposte fino a renderle del tutto inutili.

Per fare un esempio, oggi si discute se limitare la rendicontazione paese per paese solo all’interno dell’UE, lasciando la possibilità di pubblicare dati aggregati per tutti i paesi terzi, vanificando così la richiesta di trasparenza.

I Panama Papers saranno l’occasione per un reale cambio di rotta, o ancora una volta assisteremo a una gara a sorprendersi e a gridare allo scandalo per poi non muovere un dito?

Difficile leggere le reazioni di questi giorni e non pensare a una canzone di De Andrè: “prima pagina venti notizie ventuno ingiustizie e lo Stato che fa? Si costerna, s’indigna, s’impegna, poi getta la spugna con gran dignità”.

Come per molte altre questioni di regolamentazione finanziaria, fermare la vergogna dei paradisi fiscali non è tanto un problema tecnico: sapremmo cosa fare e come procedere. Quella che fino a oggi è mancata è la volontà politica di farlo. E leggendo i nomi nei documenti in arrivo da Panama, è facile capire il perché.