La sfarzosa distesa di grattacieli che accoglie i visitatori di città di Panama si è vista accerchiata dalla prima protesta popolare di dimensioni massive della storia recente del Paese.

DURANTE L’INTERO MESE di luglio e ancora ad agosto, le strade della capitale sono state occupate da docenti, studenti, comunità indigene, contadini, medici, operai e pescatori.

I manifestanti hanno bloccato la Carretera Interamericana, principale arteria di comunicazione dell’America centrale, in segno di protesta contro l’aumento dei costi di alimenti, benzina e medicine, cui si sono aggiunte le rimostranze contro il clientelismo e la corruzione sistemica del governo di Laurentino Cortizo, in carica dal 2019.

La recente ondata di mobilitazioni che ha coinvolto la dorsale andina dell’America latina non ha risparmiato «l’oasi dorata» del continente, la cui costante crescita economica – accelerata dal ripristino del pieno controllo del Canale nel 1999 – continua a fondarsi su una spaccatura strutturale tra le grandi élite economiche internazionali e la popolazione locale.

Sotto l’ingombrante egida dell’influenza statunitense, gli ultimi governi panamensi hanno strutturato un modello di autofinanziamento basato sulla trasformazione del sistema bancario in un paradiso fiscale, sulla scarsa ridistribuzione degli introiti provenienti dal Canale e sul progressivo deterioramento delle istituzioni democratiche.

«LO STATO DI PANAMA è disegnato per il furto – riferisce Jesus Alemancia, sociologo di origine gunadule – È un centro di accumulo di ricchezza per le élite imprenditoriali, che qui hanno una caratteristica che le distingue dal resto del continente: non sono élite latifondiste di discendenza coloniale. Sono arrivate dall’Europa e dagli Stati uniti dopo la seconda guerra mondiale. Poi dalla Cina. È il capitale straniero a governare il Paese, e lo Stato lo sostiene sempre: attraverso appalti, agevolazioni fiscali, flessibilità nelle leggi sul lavoro e sull’ambiente».

Le mobilitazioni hanno avuto inizio il 4 luglio scorso, con le proteste dei docenti di Veraguas e Chiriquí per le disastrose condizioni della scuola pubblica.

Lo sciopero degli insegnanti nella capitale panamense, lo scorso primo agosto (Ap/Arnulfo Franco)

LE ACCUSE dei manifestanti erano dirette al mancato rispetto da parte del governo della Legge 47, la quale prevederebbe di reinvestire il 6% del Pil nel settore dell’educazione. Dopo un primo sciopero di 72 ore da parte degli insegnanti, si sono uniti alle manifestazioni diversi settori sociali messi alle strette dall’aumento del costo del combustibile.

In pochi giorni, le proteste si sono estese a tutto il paese. Spiega Alemancia: «Fino a pochi mesi fa, l’insalata si comprava a 0,90 dollari al chilo. Ora la trovi a sei dollari. Mangiare in strada ti costava due dollari. Ora otto. Se hai una malattia al cuore o al sistema nervoso, le medicine sono inaccessibili». Il salario minimo a Panama è di 300 o 350 dollari a seconda dell’impiego.

«Il logorio del Paese è esploso nelle piazze, spontaneamente. Anche le piattaforme di resistenza sono state sorprese: prima la gente è scesa in strada, poi si è organizzata la rivolta».

Nella seconda metà di luglio si sono integrati alle proteste nazionali diversi movimenti indigeni, con rivendicazioni specifiche legate alle ingerenze delle multinazionali e dei latifondisti stranieri nei loro territori.

Dalla regione del Darién, ai confini con la Colombia, le comunità gunadule ed embera hanno denunciato la deforestazione massiva della selva per mano di proprietari terrieri stranieri, a favore di monoculture di piante esotiche.

Allo stesso modo, dall’area montagnosa dell’occidente del Paese, le popolazioni ngobe sono giunte in città per proseguire la loro battaglia contro le multinazionali del settore idroelettrico, i cui progetti stanno mettendo a repentaglio la salute della comunità.

È IL CASO DELLA CENTRALE di Barro Blanco, sul fiume Tabasará, che ha causato inondazioni e perdita di risorse idriche, costringendo alla migrazione diversi abitanti.

D’altronde, la connivenza dello Stato verso l’azione distruttiva delle imprese del settore energetico era stata ratificata dalla cosiddetta Ley Chorizo del 2010, che prevedeva l’eliminazione degli studi di valutazione dell’impatto ambientale in caso di opere di interesse sociale.

Insieme, il Caso Odebrecht – il più grande scandalo di corruzione del decennio in America latina, per cui è ancora indagato l’ex presidente di Panama, Ricardo Martinelli – aveva messo in luce un oliato sistema di corruzione del settore pubblico negli appalti per le assegnazioni di opere idroelettriche.

L’integrazione alla protesta popolare dei movimenti indigeni ha dato un ulteriore impulso alle istanze dei manifestanti, come segnala Alixenia López, avvocata e attivista: «Quando sorge la necessità di difendere i diritti del popolo panamense, gli ngobe sono sempre in prima linea. Impiegano cinque ore per scendere dalla montagna. Sanno portare avanti le proteste per settimane, sanno esigere i loro diritti in maniera più contundente. Hanno veicolato la rabbia di tutte le classi popolari».

LA RISPOSTA alle proteste da parte del Prd, gruppo politico al potere dal 2019 e afferente al sistema partitico tradizionale del Paese, si è attuata su più fronti. Se da una parte la repressione violenta delle manifestazioni ha causato decine di feriti, dall’altra i primi tavoli di mediazione hanno permesso di calmierare il prezzo della benzina, di alcuni alimenti e delle medicine.

In cambio, i manifestanti hanno momentaneamente liberato la Carretera Interamericana. Le proteste proseguono a intensità minore, così come le trattative tra governo e manifestanti.

Il luglio di fuoco a Panama smaschera il gioiello da vetrina dell’America neoliberale, evidenziando le laceranti spaccature di un Paese in cui l’apparente tranquillità sociale non è mai stata sinonimo di benessere collettivo.

CHIOSA ALIXENIA: «Dopo la dittatura di Manuel Noriega (1983-1989, ndr), per decenni la gente ha avuto il terrore della repressione. Ha smesso di protestare. Ma ciò non elimina i gravissimi problemi di corruzione, giustizia, educazione. Dietro ai grattacieli, nelle periferie di San Miguelito, i bambini crescono tra miseria e sparatorie. Quello che Panama mostra al mondo è la vetrina degli oligarchi».