«Evaporazione e concentrazione dell’Io. Tutto qui». La frase enigmatica di Baudelaire, all’inizio di Mon cœur mis à nu, risponde a una celebre metafora di De l’amour: quando Stendhal, per descrivere la proiezione di ogni amante sulla persona amata, ricorda l’usanza di gettare rametti d’albero, al fondo delle miniere di sale di Salisburgo, per mesi dopo rinvenirli fioriti di «cristallizzazioni brillanti»: ricche e strane, appunto come l’amore. A questo processo assomiglia, in generale, quella che chiamiamo arte. Ma ha ragione Baudelaire: tutto sta nell’essere capaci pure di liberarli, l’amante e l’amato, facendo evaporare le concrezioni gemmate sulle loro esistenze. Pena, in caso contrario, restare imbozzolati in quella crisalide, paralizzati sotto la teca di un museo senza visitatori.
Il passo di Stendhal è richiamato da Thierry Dufrêne in uno dei contributi raccolti nel bel volume dal titolo rubato a Leonardo Sciascia (e a Yves Bonnefoy), Un sogno fatto a Milano Dialoghi con Orhan Pamuk intorno alla poetica del museo (a cura di Laura Lombardi e Massimiliano Rossi, Johan & Levi, pp. 198, euro 30,00), che restituisce un incontro di un anno fa col Premio Nobel 2006, in occasione del diploma honoris causa conferitogli dall’Accademia di Brera, sul suo romanzo del 2008, Il museo dell’innocenza, e sull’omonimo museo quattro anni dopo inaugurato da Pamuk a Istanbul. Ora la stessa Milano (sino al 24 giugno, al Museo Bagatti Valsecchi) ospita una selezione del Museo dell’innocenza che le curatrici Lucia Pini e Laura Lombardi hanno intitolato Amore, musei, ispirazione. E così, dopo ulteriori episodi (come il ricco catalogo del museo – L’innocenza degli oggetti, Einaudi 2012 – e il notevole film di Grant Gee, Istanbul e il Museo dell’Innocenza, 2016), il cerchio si chiude: perché il Bagatti Valsecchi è uno dei «piccoli musei» dei quali Pamuk tesse l’elogio (come quello su Gustave Moreau a Parigi o, a Roma, la casa della vita di Mario Praz), contrapponendoli ai «grandi musei nazionali, sempre più simili a parchi giochi o centri commerciali». Mentre questi rappresentano «lo Stato e il suo potere», i piccoli musei consentono «l’accesso a un universo privato». Gli uni stanno agli altri come l’epica ai romanzi: la prima racconta le gesta di un popolo, i secondi «possono anche parlare delle persone». Con tutta l’ammirazione per «istituzioni monumentali» come il Louvre, il Prado o il Topkapi, conclude Pamuk, «il futuro dei musei è dentro le nostre case». Si potrebbe dire che l’autore del Mio nome è rosso si collochi agli antipodi del suo quasi coetaneo Aleksandr Sokurov: che, ossessionato dal destino di popoli travolti da Individui-Moloch, ha dedicato all’Ermitage e al Louvre due grandi film, L’arca russa e Francofonia, che di questi Musei-Monumento esaltano – con tutte le ambivalenze del caso – proprio la dimensione «epica» o, diciamo meglio, storica.
Naturale che a raccogliere la provocazione di Pamuk siano anzitutto gli studiosi di museologia. Come Stefania Zuliani, che parafrasa Virginia Woolf per definire questa tipologia «Un museo tutto per sé», e ne presenta alcuni – il parigino Musée national de l’histoire de l’immigration, il Museo Laboratorio della Mente (creato da Paolo Rosa di Studio Azzurro nell’ex ospedale psichiatrico di Santa Maria della Pietà a Roma) o il Museo della Memoria di Ustica (allestito da Christian Boltanski, a Bologna, coi resti del DC9 precipitato nel 1980) – nei quali si stempera la dicotomia un po’ manichea di Pamuk. Anche questi sono luoghi non-monumentali, pudiche raccolte di biografie individuali (Zuliani li può contrapporre a un blockbuster delle emozioni come il Jüdisches Museum di Libeskind, a Berlino); ma proprio per il loro linguaggio espositivo sanno raccontare storie che vanno al di là dell’ossessione di un singolo. Dufrêne ricorda alcuni precedenti diretti: dai Musei sentimentali di Daniel Spoerri alle «mitologie individuali» di Harald Szeemann sino ai Musei personali appunto di Boltanski (riferimenti accolti dall’interessato, come quelli a Joseph Cornell o Ilya Kabakov). Roberto Pinto (riprendendo un suo libro stimolante, Artisti di carta, Postmedia Books 2016) sottolinea la valenza crossmediale del progetto, che lo avvicina a certa Sophie Calle; mentre Elio Grazioli (che al tema ha dedicato un libro, La collezione come forma d’arte, Johan & Levi 2012) ricorda come prima vocazione di Pamuk fosse quella per la pittura (sicché il suo caso, ha scritto una volta Tommaso Pincio che ne sa qualcosa, rientra nella tipologia degli scrittori come pittori falliti; è un fatto che Pamuk, con una certa fierezza, definisca Il museo dell’innocenza un’«opera d’arte contemporanea»).
Il cerchio si chiude a Milano anche perché al Bagatti Valsecchi, in effetti, si concludeva pure il romanzo da cui tutto ha preso le mosse. Tirando in ballo l’infraordinario di Georges Perec, Francesco Tedeschi mi fa venire in mente come il precedente letterario più diretto del Museo dell’innocenza, in effetti, sia il finale della Vita: istruzioni per l’uso (che esce nel ’78, cioè più o meno al tempo in cui è ambientato il romanzo di Pamuk). Il protagonista del Museo, Kemal Bamaci, come il Bartlebooth di Perec muore inseguendo un’ossessione che, come tutte le ossessioni (e le collezioni), vive proprio della sua inesauribilità. Ed entrambi gli iper-romanzi si chiudono, ad anello, sulle rispettive origini. Dopo aver visitato 5273 musei di tutto il mondo, Kemal torna in quello archetipico, appunto il Bagatti Valsecchi: «dimora dell’Ottocento che due fratelli progettarono in stile rinascimentale» e che lo ha soggiogato «perché la splendida collezione era costituita da banali (benché rinascimentali) oggetti di uso quotidiano». In realtà il museo milanese conserva pure un Giovanni Bellini, e tuttavia ha ragione Pamuk: come dice Lucia Pini, ricordando la prefazione al catalogo originario di Pietro Toesca, è questo l’archetipo, l’ideal-tipo del museo individuale (anche se tale funzione demiurgica, in effetti, la svolgono in due: ma anche questo s’incastra col tema del Doppio che torna in tutti i romanzi di Pamuk).
La vera materia che ossessiona Kemal e il suo doppio, Orhan, è il tempo. In cima al museo di Istanbul c’è il suo ónfalos, la Soffitta. Dalla quale, sporgendosi dalle scale, si vede un grande tappeto che al piano terra riproduce una Spirale. Kemal paragona la sua storia «a una spirale perché anche a lui sembrava di disegnare cerchi sempre più grandi intorno a un centro, e non riusciva mai a staccarsi dal punto di partenza: l’amore». All’origine di tutto c’è l’orecchino che perde Füsun, la donna che ossessiona Kemal, la prima volta che i due fanno all’amore. È questo il feticcio montaliano (un esergo da Montale reca L’innocenza degli oggetti) che troneggia nella prima teca-assemblage del Museo: una farfalla (simbolo dell’Anima, ricorda Dufrêne) che campeggia appunto su una spirale. Füsun è ossessionata dal cinema, e il suo destino viene deciso da un fotogramma di Caccia al ladro di Hitchcock: come Grace Kelly, muore in auto nel pretendere di ri-mettere in scena, nella vita reale, il momento perfetto della sua esistenza cristallizzata in immagine. L’orecchino-Spirale ha la stessa funzione, allora, del ricciolo-Spirale di Kim Novak, la Vertigine della Donna che visse due volte: metterci in guardia dalla fearful symmetry che, come un occhio di Medusa, può pietrificarci all’interno di un tempo fatto cristallo.
Queste le ultime parole di Kemal: «Tutti devono saperlo: ho avuto una vita felice». Gli si può rispondere con quelle di Albert Camus: «Bisogna immaginare Sisifo felice».