Sfogliando la nuova edizione del libro di memorie scritto da Orhan Pamuk tra il 2002 e il 2003 viene alla mente il racconto di Borges sulla riscrittura perfettamente identica del Don Chisciotte a opera di un tale Pierre Ménard in pieno Novecento. Uno stesso libro, composto dalle stesse parole, ripubblicato a distanza di tre secoli, finisce per essere un’altra opera. Diverso il contesto storico, diverso l’autore.

Non sono passati secoli, ma solo una dozzina di anni. Tuttavia si può affermare che il Pamuk che ripubblica nel 2015 il suo libro di dodici anni prima è il Pierre Ménard di se stesso.

La nuova edizione illustrata di Istanbul I ricordi e la città (traduzione italiana di Semsa Gezgin a eccezione dell’introduzione, tradotta da Barbara La Rosa Salim; cura del volume di Walter Bergero, Einaudi «Frontiere», pp. 704, € 45,00) dialoga in autonomia con la prima. Si potrebbe addirittura dire che vi si contrappone.

L’ultima frase del libro è la risposta che nel 1975 Orhan, studente svogliato di architettura e aspirante pittore ormai in crisi, dette a sua madre che gli consigliava di fare uno sforzo e laurearsi, invece di sprofondare in una vita da artista frustrato e umiliato: «Non diventerò pittore – dissi. Diventerò scrittore, io». La nuova edizione, che in originale ha un titolo più esplicito, Resimli Istanbul, ovvero «Istanbul illustrata», si arricchisce invece proprio sul piano iconografico.

Le immagini scelte dall’autore, quasi tutte fotografie, più qualche disegno e alcune splendide incisioni settecentesche di Antoine-Ignace Melling, passano da 200 a 430.

Diventato scrittore, sembra che ora Pamuk proceda a ritroso verso la sua ispirazione adolescenziale per le arti visive. Il nuovo libro è più grande (stessa altezza, ma più largo), più voluminoso, e in carta lucida.

Le caratteristiche fisiche sono al servizio della resa fotografica. Di conseguenza il testo, dapprima asse portante, ora assume il ruolo di commento alle immagini. Pamuk stesso nell’introduzione dichiara che il libro «può essere assaporato anche sfogliando le pagine in modo casuale».

Tenuta architettonica

In questo nuovo assetto si scorge tuttavia una sorta di monumentalizzazione del testo: se quello del 2003 è il memoir di uno scrittore cinquantenne che fa i conti con se stesso e con la sua città – il luogo dove ha sempre vissuto e che costituisce la materia fondamentale delle sue narrazioni –, il libro del 2015 è l’opera di un sessantenne premio Nobel per la letteratura che chiarisce a se stesso e al lettore il senso della sua intera attività considerata come un’unica articolata costruzione.

Si direbbe che l’autore non solo dà il ruolo principale alle immagini, ma sottolinea anche la tenuta architettonica di un edificio di parole costruito in quarant’anni di lavoro di cui le immagini sono metaforicamente le vetrate. Il nuovo Istanbul si presenta perciò come punto di snodo tra i libri pubblicati fino al 2003 e i successivi, un tirante che li tiene insieme, rivelando l’eziologia delle storie precedenti e il germe di quelle che lo hanno seguito. Ovviamente, si crea un dialogo biunivoco.

In particolare, a gettare nuova luce è l’esperienza del lavoro preparatorio per Il museo dell’innocenza (2008), il primo romanzo scritto dopo il Nobel (’06). Con Il museo Pamuk compiva un’originale azione parallela: mentre nel romanzo raccontava del giovane Kemal, che tenta di superare il trauma di un amore impossibile diventando collezionista di oggetti sentimentalmente evocativi, contemporaneamente nella realtà collezionava quegli stessi oggetti, che poi avrebbe esposto in un vero museo appositamente costruito ristrutturando la casa in cui sono ambientate molte scene chiave del romanzo.

Sul museo Pamuk ha poi scritto un testo per molti aspetti affine a Resimli Istanbul, ovvero L’innocenza degli oggetti, libro che anch’esso può essere «assaporato» sfogliandolo qua e là.

Molti di questi oggetti sono immagini, per lo più fotografiche. Il gioco di specchi tra romanzo, museo e catalogo del museo (cui andrebbe aggiunto il documentario di Grant Gee Innocence of memories, 2015) parte dal memoir del 2003. In nuce era già lì, come si evince non solo considerando l’impianto generale dell’opera, ma anche enucleando chirurgicamente alcune pagine.

La storia d’amore tra Kemal e Füsun al centro del Museo è infatti adombrata nel capitolo 35 di Istanbul, intitolato «Il primo amore».

La differenza sta nel fatto che la ragazza amata da Pamuk è di condizione sociale pari alla sua (lui però le si è avvicinato nella veste di giovane pittore e così ha finito per spaventare la famiglia di lei a causa del classico stereotipo del «pittore povero e della sua modella nuda»), mentre il Kemal del Museo è molto più ricco della sua giovane parente Füsun.

Si potrebbe indagare a tale proposito sulle proprietà compensative dell’invenzione letteraria. Inoltre, nelle pagine del capitolo 18 dedicate a Resat Ekrem Koçu, uno dei «quattro scrittori tristi» turchi del Novecento che hanno insegnato all’autore come guardare Istanbul (ispirandosi a loro volta a Nerval, Gautier, De Amicis e Flaubert), si legge il seguente profilo: «Si può forse paragonare il nostro scrittore a quei collezionisti amareggiati che dopo una delusione privata rinunciano all’amore e alle persone e cominciano, istintivamente, a raccogliere e accumulare rarità, per dedicare tutta la vita a questa ricerca. Però Koçu non ammassava oggetti come i collezionisti classici, ma piuttosto si interessava a ogni specie di informazione strana su Istanbul».

In queste poche righe è chiaramente anticipata la trama del Museo. Nel capitolo 20, «La religione», affiorano temi che erano già elaborati in Neve, ma sono stati ripresi anche nel recentissimo La donna dai capelli rossi, che possiamo considerare lo sviluppo tragico di un’unica frase: «Per me, il vero tema religioso è il senso di colpa».

Eziologia dei personaggi

Di personaggi importanti dei primi romanzi in Istanbul si dichiara l’origine: il misterioso Celâl autore nel Libro nero (1994) di una rubrica periodica sulla Città è ispirato ad Ahmet Rasim, ad Ali Effendi e agli altri scrittori di rubriche metropolitane descritti nel capitolo 15; le avventure imprenditoriali del signor Cevdet, protagonista del primo romanzo di Pamuk, oltre a ricordare il primo romanzo di Thomas Mann, si ispirano a quelle del padre dell’autore; il Castello bianco è la realizzazione di un progetto vagheggiato da Flaubert, Harel bey, «la storia di due uomini, uno civile e occidentale e l’altro incivile e orientale, che col tempo si somigliano sempre di più e alla fine si scambiano i posti», riportato all’inizio del cap. 31.

Concluderei il lungo ma parziale elenco citando non il testo, ma l’apparato iconografico della nuova edizione.

Tra le numerose fotografie aggiunte, provenienti dall’archivio personale di Pamuk e dalla collezione Cengiz Kahraman, ma anche da altre fonti, tra le quali l’opera del grande fotografo Ara Güler, colpisce una figura ricorrente: il venditore povero che porta la sua merce in due grossi contenitori appesi ai lati di una stanga di legno sospesa in equilibrio sulle spalle.

È l’immagine dell’ambulante Mevlut, protagonista del memorabile La stranezza che ho nella testa (2013), il primo romanzo che Pamuk ha dedicato ai contadini dell’Anatolia che arrivano a Istanbul per cercare fortuna e svolgono i lavori più umili e pesanti.

Se il libro del 2003, pur nella varietà dei temi, era incentrato sul concetto di «tristezza» (hüzün), intesa come sentimento comune degli abitanti della Città ma soprattutto come il modo col quale un artista turco, impadronendosi dello sguardo degli intellettuali occidentali, cerca di guardarla per poterla considerare «sua» (la tristezza nasce dalla nostalgia, cioè dal sentimento di una perdita, dunque è un tentativo di superare la prospettiva di chi ha conquistato Costantinopoli, ovvero si è appropriato di cosa non sua, per assimilarsi a chi ne piange la caduta, e perciò sente di appartenerle); la nuova edizione illustrata di Istanbul, come la Città, come le incisioni di Melling, veramente «non ha un centro se non l’autore stesso».

Il paradosso di Borges

Realizzando un paradosso di Borges, Istanbul è una carta geografica grande quanto il territorio che rappresenta. La questione tuttavia rimane aperta, perché identificare questo territorio è difficile.

È la Città? Lo sguardo di Pamuk sulla Città? La biografia interiore di un uomo che per caso è nato nella Città? O è il senso di tristezza di un uomo che ripensa alla propria infanzia felice e all’interno di questa tristezza fa costantemente rivivere la sua infanzia attraverso la magia del narrare e, dove non arrivano le parole, attraverso l’incanto di fotografie «senza centro» che possono rivelare a ogni nuovo sguardo un particolare finora sempre sfuggito e così dare l’illusione di un contatto fisico tra il momento presente e il passato irrimediabilmente perduto?