«Palmira è tornata al patrimonio siriano e io ho ritrovato il senso del mio lavoro perché se in questi ultimi anni ho scelto di non abbandonare la Siria è proprio per non venir meno ai miei doveri di studioso e rivendicare i miei diritti di cittadino». A circa una settimana dalla cacciata dei miliziani del «califfo» Al-Baghdadi da Palmira – la città carovaniera iscritta dal 1980 alla lista dell’Unesco – Maamoun Abdulkarim ci parla al telefono da Damasco. Dalla voce appare sollevato sebbene la sua attitudine resti combattiva. Docente di archeologia romana presso l’Università di Damasco, Abdulkarim ricopre dal 2012 il ruolo di direttore generale alle Antichità e ai Musei siriani, missione che con l’inasprirsi della crisi e l’avanzata del sedicente Stato islamico ha richiesto coraggio, nervi saldi e fiducia in un futuro meno buio, nel quale uomini e pietre possano nuovamente porsi in dialogo col mondo.

Nell’intervista concessa al manifesto nel settembre 2015 definiva Palmira una città in ostaggio. Adesso che è stata liberata, si è già recato sul posto?

Non ancora ma un’equipe del Dgam (Directorate-General of Antiquities and Museums, ndr) è già in azione sul campo. Parallelamente si sta procedendo con lo sminamento perché – com’è noto – il progetto di Daesh era di far esplodere per intero il sito.

Sui media circolano immagini che mostrano lo stato delle rovine dopo l’occupazione dei jihadisti. Scenario non apocalittico ma che lascia ugualmente sgomenti per la gravità dei danni.

Occorre guardare a ciò che non abbiamo perso. Dal punto di vista architettonico, Palmira si conserva quasi integralmente. La cittadella – benché danneggiata dai combattimenti dell’ultimo periodo –, la grande strada colonnata, il tetrapilo, l’agorà, il Campo di Diocleziano, le terme e il santuario di Nabu sono scampati agli intenti distruttivi dell’Isis. Anche le torri funerarie meno elevate sono in piedi. Il paesaggio del sito è salvo, sebbene mutilo. Invece, gli scavi clandestini svolti da Daesh in collaborazione con criminali e «mafiosi» hanno devastato zone ancora da indagare.

In Europa, malgrado il conflitto siriano sia lungi dall’essere risolto, si parla già della ricostruzione di Palmira. È opportuno?

Da parte nostra, abbiamo individuato gli edifici colpiti dall’Isis che sarà possibile recuperare. Ad esempio, la scalinata e il podio del tempio di Bêl – la cui cella è saltata in aria – sono intatti, assieme alla porta monumentale. Anche le mura del recinto persistono. Le colonne non si sono frantumate ma solo «scomposte». Alcuni blocchi della decorazione sono integri e in situ. Secondo i primi riscontri, dunque, il 30% del tempio di Bêl potrà essere restaurato e si potrà eventualmente reintegrare con materiali estratti da cave locali. L’insieme delle operazioni andrà valutato da un comitato internazionale e sotto l’egida Unesco. Le responsabilità devono essere condivise proprio perché Palmira è patrimonio dell’umanità intera. Ma non abbiamo mai pensato di ricostruire da zero i monumenti, il nostro scopo è agire sulla base di presupposti scientifici.

In Italia è stato proposto di realizzare copie dei templi di Bêl e Baalshamin per mezzo di una mega stampante 3d…

La tecnologia 3d sarà senz’altro utile ma per lo studio architettonico finalizzato ai restauri. Le questioni inerenti il patrimonio siriano sono molto politicizzate e rischiano di distorcere la realtà. Per me Palmira appartiene a tutti i siriani, siano essi pro o contro l’attuale governo. Bisognerebbe iniziare a parlare di ricostruzione culturale, piuttosto. In questo senso sono grato specialmente ai colleghi italiani e tedeschi per non aver mai interrotto le relazioni con il Dgam e per averci anzi sostenuto. Sono anche commosso per la sensibilità con cui l’Italia ha voluto onorare – con numerose iniziative – la memoria di Khaled al-As’ad (il direttore delle antichità di Palmira ucciso dall’Isis lo scorso agosto, ndr).

Come rimedierete alle catastrofiche condizioni del museo di Palmira rivelateci dalle riprese post-liberazione?

Per fortuna Daesh non ha usato al museo di Palmira la violenza espressa a Mosul. Le statue che si vedono nelle foto sono quelle che non siamo riusciti a evacuare prima dell’arrivo dei miliziani. Molte sculture sono state sfigurate. Malgrado ciò, sarà possibile effettuare dei restauri persino dell’imponente Leone di Allat, la statua che si trovava all’ingresso ed è stata abbattuta ma non polverizzata.

Le risultano saccheggi?

No, perché prima del maggio 2015 avevamo messo in salvo gli oggetti facilmente commerciabili. Ai jihadisti non interessano le statue perché sono contro la loro ideologia iconoclasta. Cercano oro, argento, monete, vasi, vetri preziosi… Daesh ha venduto licenze di scavo a bande di criminali proprio per ricavarne tesori da immettere nel mercato clandestino. Un giorno potremo riportare i reperti trasferiti a Damasco a Palmira, ma bisognerà attendere la fine delle ostilità. Non solo a Tadmor. In tutta la Siria.