Le rovine dell’antico centro siriano di Palmira sarebbero state minate dall’esercito nero dell’Isis. Due mausolei – di un altro Islam – distrutti. Emerge una guerra dominata dalla contemporaneità del petrolio e intrecciata nei diversi Islam. Prosegue la distruzione degli idoli «pagani». L’ultimo il magnifico leone di Al’Lât, del primo secolo d.C., raffigurazione di una delle tre divinità pre-islamiche, assieme ad al-Uzzà e al Manâh, ricordate dallo stesso Maometto nella Sûra 52 (19-20) del Corano. Le notizie si inseguono.

C’è chi nega che la città romana – peraltro a suo tempo colpita anche da bombe damascene – sia stata minata. Ma Palmira è sotto tiro. La difficoltà di scrivere, di nuovo, su un danno avvenuto, o che sta per avvenire in queste ore, di controllare le fonti, di orientarsi fra comunicati militari attraverso le rovine, si lega all’assenza di prospettive per la difesa di questi luoghi. In una guerra dove l’archeologia non è più importante delle vite umane, dice qualcuno, ma la distruzione delle vite di oggi e della memoria di quelle di ieri non è separabile. Come aspettarsi azioni da parte di un sistema che non può esprimerle? Siamo in realtà senza strumenti perché la contraddizione fra la diagnosi dei fatti e la soluzione del sistema che li ha generati è insanabile. Il sistema che genera distruzione genera profitto, e la guerra è cieca di fronte alla tradizioni da conservare.

Il 12 giugno scorso Sana’a, splendida città islamica yemenita, pezzo importante della storia araba che riempì di stupore Pier Paolo Pasolini, è stata devastata da missili. Tredici giorni prima l’aviazione militare saudita ha sbriciolato, praticamente nello stesso sito, la grande diga antica di Marib. Monumenti Unesco.

La guerra è in relazione con il traffico dei reperti. In un intervista di Valentina Porcheddu a Maurice Sartre, professore emerito all’Università di Tour e direttore della rivista «Syria» sul manifesto lo studioso affermava «Il pericolo è che Daesh, che vende a caro prezzo «licenze» per scavi clandestini, comprometta per sempre le stratigrafie come si è già verificato nei siti di Dura Europos e Mari»: danni scientifici meno rilevanti dell’immensa speculazione globale. Il 18 giugno scorso l’Unesco ha stimato in oltre 2 miliardi e 200 mila dollari i guadagni del traffico dei reperti archeologici. Una cifra impressionante, che potrebbe essere sottostimata e superare in realtà 6 miliardi di dollari. Le aste private, le celebri gallerie affollate, nel web e dal vivo, da bella gente e misteriosi emissari, continuano a battere manufatti vicino-orientali, vasi greci ed etruschi, vasi cinesi, marmi romani, bronzetti dalla Sardegna nuragica.

È assai improbabile che si generino soluzioni da parte di una comunità di nazioni che non è in grado di effettuare controlli efficaci fra rovine di guerra e traffico di reperti archeologici; che produce e alimenta queste pratiche.

L’Unesco vede appannarsi progressivamente il suo prestigio, la sua incisività si azzera. Patrimonio dell’Umanità. Città cosmopolita. Luogo di incontri. Di fronte alle armi della guerra e del profitto di rapina le formule vengono declinate in maniera ambigua, spesso al di fuori della loro reale essenza. Ci si augura che Palmira non venga distrutte, ma di fronte a questa impossibilità di intervento è necessario ricostruire politiche, posizionando al centro un nuovo sistema dei beni culturali e del paesaggio, e la riflessione sulle sue connessioni sociali. Un compito importante che mi piacerebbe vedere nei movimenti progressisti: tutelare e consolidare, dovunque è possibile, i paesaggi culturali come beni comuni. Lavorare per lo studio e la costruzione di nuovi sistemi giuridici, dare battaglia perché prevalga il senso pubblico del patrimonio, perché in ogni paese si sviluppi un impegno sociale e legislativo contro gli scavi clandestini, il traffico dei manufatti archeologici e la loro circolazione privata. Costruendo alleanze internazionali.

Ci sono altri santuari da abbattere che non quelli degli antichi dèi pagani, costruiti dall’integralismo e dal profitto.