Nessuno avrebbe dovuto toccare Palmira, la «Sposa del Deserto». Era la scintillante immagine di una moltitudine in movimento, scandita dall’interminabile succedersi di voci e di linguaggi, di animali e mercanti, divinità e merci. Una grandiosa scenografia del passato che, pur esibendo competenze in materia di architettura greco-romana – la Via Colonnata, il Teatro, le Terme – non aveva mai abiurato la millenaria tradizione dell’Oriente.
Di Palmira faceva parte, da sempre, l’estasi dell’arrivo. Nell’antichità, le carovane provenienti dall’Oriente vi trovavano ristoro dall’arsura di un deserto brullo e ostile. Ci furono, poi, i viaggiatori occidentali che, a partire dalla riscoperta di Tadmor (l’antico nome semitico di Palmira) alla metà del Settecento, vi si avventurarono: «Dopo una marcia di tre giorni attraverso un arido deserto – e avendo appena oltrepassato una valle di grotte e sepolcri – ebbi, alla fine della pianura, la più straordinaria vista di rovine. Erano composte da innumerevoli colonne in posizione eretta che, simili ai nostri viali, si estendevano in ordine simmetrico, fino a che l’occhio poteva seguirle. Sotto queste colonne erano ampi edifici, alcuni completamente, altri parzialmente in rovina. Ovunque il terreno era ricoperto di resti di fregi, pilastri, timpani e colonne rettangolari, tutti di marmo bianco e finissima lavorazione…».
La voce narrante di questo incontro con Palmira è dello storico e filosofo illuminista francese Constantin-François Volney, che visitò l’oasi nel 1789. L’impressione che in lui suscitarono le rovine gli diedero lo spunto per la sua opera Le rovine o meditazioni sulle rivoluzioni degli imperi. «Dopo che mi ero aggirato per tre quarti d’ora tra queste rovine – prosegue – giunsi a un grande edificio che, in passato, era un tempio dedicato al Sole. Cercai ospitalità presso i poveri contadini arabi, che avevano eretto le loro capanne di paglia in prossimità dell’ingresso del tempio…».
Le misere capanne dei contadini arabi erano, per il Volney, simbolo di una decadenza culturale che l’autore lamentava con enfasi: «Qui, dissi a me stesso, un tempo fiorì una ricca città; qui era la sede di un potente impero … Ah, come si è fatto oscuro lo splendore, quanto lavoro è andato distrutto! È così che vanno in rovina le opere degli uomini? E’ così che scompaiono gli imperi e le nazioni?».
Fino a tempi recenti, Palmira offriva al visitatore le stesse emozioni provate dal Volney due secoli fa. Quasi nulla era cambiato. A parte il percorso che, al posto di una marcia di tre giorni, si compiva agevolmente in tre ore. Così, anche a chi scrive, dopo la solitudine del deserto, l’antica città era apparsa improvvisa, appena preannunciata da una striscia grigia, tremolante, che si stagliava contro il cielo come un miraggio: erano le saline naturali che delimitano a sud la grande oasi. Le rovine – i templi, la grande via Colonnata, le necropoli – giacevano, dominate dagli imponenti resti di una fortezza mamelucca, in un silenzio interrotto solo dal lontano borbottio di qualche raro motore. I turisti occidentali si contavano sulle dita di una mano (forse per effetto dell’attentato dell’11 settembre, avvenuto solo pochi mesi prima). Palmira viveva così – mi pareva allora – protetta dal deserto che la circondava e dal rispetto della sua gloria passata (ignoravo – o non volevo sentirne parlare – l’esistenza di quell’altro monumento-simbolo dell’oasi, situato solo a poche centinaia di metri dalla città antica: l’infame carcere di Tadmor, luogo di repressioni e torture inimmaginabili).
Poi venne il 2015, l’annus horribilis. Sgomenta ancora oggi ripensare alla tempistica e alla lucida e consapevole scelta della successione di distruzioni messa in atto dagli sgherri del sedicente Stato Islamico: nel mese di maggio i fondamentalisti islamici fanno saltare il carcere di Tadmor, il 18 agosto assassinano l’archeologo di Palmira, Khaled al-Assad, il 25 distruggono il tempio di Bal-Shamin, il 30 fanno saltare la cella del grande tempio di Bel. Questo santuario era stato eretto sotto il regno di Tiberio seguendo i dettami classici ma conservando la tipica pianta dei santuari del Vicino Oriente antico, con l’ampia corte e la cella su uno dei lati lunghi. L’edificio, dedicato nel 32 d.C., rimaneva anche l’unico testimone superstite di un altro, paradigmatico santuario del Vicino Oriente antico, a cui gli architetti palmireni si ispiravano: il grande Tempio di Gerusalemme, ricostruito da Erode a partire da 21 a.C. e irrimediabilmente distrutto dalle legioni di Roma nel 70 d.C. Particolare questo, che certo è sfuggito al mortifero disegno dei fondamentalisti.
Il 4 settembre, poi, tocca alle celebri Tombe a Torre del I secolo, situate nella vasta necropoli a ovest dell’antica città. Nell’ottobre viene colpito il celebre arco trionfale, due anni dopo – nel gennaio del 2017 – è la volta del Tetrapylon e dello stesso teatro di Palmira.
Un altro dettaglio: il primo monumento preso di mira dai fondamentalisti è stato il piccolo tempio dedicato a Baal-Sha – il «signore del cielo» adorato in tutte le città della costa del Levante. Costruito nel II secolo d.C. (forse in occasione del viaggio in Oriente dell’imperatore Adriano), serviva come luogo di culto ai commercianti fenici. L’edificio, come già accennato, riproponeva i moduli dell’architettura classica – con la cella interna scandita da pilastri e le sei colonne corinzie del pronao –, mentre il vasto cortile colonnato era ispirato ai grandi edifici templari del Vicino Oriente.
Il tempio di Baal-Shamin era l’espressione più compiuta di quello spirito di dialettica convivenza che animava la città carovaniera; ed era il primo edificio che il visitatore incontrava uscendo dall’Hotel Zenobia, il vecchio albergo costruito negli anni Trenta del secolo scorso proprio a ridosso dell’area archeologica, da una nobildonna francese, la contessa Margot d’Andurian, convinta di essere la reincarnazione della leggendaria regina palmirena.
Non è da escludere che, un giorno, anche Palmira potrà rinascere, con tutti suoi monumenti filologicamente ricostruiti. Di un dato, però, siamo tristemente certi: Palmira non sarà mai più quello che Ross Burns (autore della fondamentale guida Monuments of Syria), aveva definito «an elusive and highly romanticised goal of European travellers over the centuries».