Palmira è stata liberata. Di nuovo: dopo il rientro dell’Isis a dicembre, Damasco e Cremlino hanno annunciato il ritiro degli islamisti e l’ingresso delle truppe governative. L’esercito, coperto dai raid russi, ha ora il totale controllo dell’antica città.

Una vittoria importante che arriva mentre a Ginevra continua il negoziato senza gli Stati uniti. La fine dell’amministrazione Obama e l’inizio di quella Trump sono stati accomunati dalla ritirata Usa dal campo siriano. Tutto in mano alla Russia, che si giostra tra nuove e vecchie alleanze.

È il caso di Manbij, da giorni target dei missili turchi e degli attacchi via terra del suo braccio armato, l’Esercito Libero Siriano. Il presidente Erdogan lo dice a ogni piè sospinto: «Marceremo su Manbij».

Non una città qualunque: a sud di Jarabulus, a metà strada tra al-Bab e Kobane, a 70 km da Raqqa, è controllata dalle Forze Democratiche Siriane (Sdf) che l’hanno liberata la scorsa estate dal giogo del “califfato”.

Ieri il Consiglio militare di Manbij (tra le sue fila i tanti popoli siriani: kurdi, arabi, turkmeni, assiri, circassi), ha annunciato il raggiungimento di un accordo storico con il governo siriano – mediato da Mosca – per la protezione della parte ovest della città minacciata dalla potenza di fuoco turca. Le linee di difesa occidentali di Manbij sono state consegnate a Damasco per fermare le incursioni dell’Els.

Un nuovo rimestamento delle alleanze: le Sdf sono sostenute dagli Usa, stretti alleati della Turchia che le considera gruppi terroristi; allo stesso tempo la Turchia è il braccio destro della Russia nel tavolo di Astana, ma sostiene forze di opposizione al presidente Assad, primo uomo di Mosca.