«Amico, ti racconterò la storia della mia vita, come tu desideri». L’inizio di Alce nero parla è giustamente celebre. Per un’intera civiltà, ha l’importanza di un proemio omerico. Indica perfettamente una dimensione primigenia del racconto, la relazione tra chi parla e chi ascolta, considerati come i due poli indispensabili dell’energia di una storia. Tradisce un presupposto implicito: non si può raccontare la stessa cosa a due persone diverse. E come accade in certi capolavori letterari moderni (uno fra tutti: La sonata a Kreutzer di Tolstoj) a volte bisogna aspettare a lungo prima di imbattersi nella persona giusta per iniziare a raccontare.

Due diversi piani di realtà
Già: ma chi è la persona giusta? «Amico, ti racconterò la storia della mia vita, come tu desideri…». Con poche, nobili parole lo sciamano sioux acconsente al desiderio di sapere dell’estraneo, quel bianco curioso, non più giovane, che nell’estate del 1930 si era presentato alla soglia di casa sua, nella riserva indiana di Pine Ridge, South Dakota, per fare domande. Non che Alce Nero amasse particolarmente conversare con i bianchi, i Wasichu, come li chiamava nella sua lingua. Aveva comunque bisogno di un interprete.

Proprio pochi giorni prima di incontrare John G. Neihardt, poeta e romanziere del Nebraska specializzato in storie indiane, aveva respinto l’ennesima scocciatrice che si era sobbarcata il viaggio per avere notizie di suo cugino, Cavallo Pazzo. Anche Neihardt sapeva che quel vecchio pellerossa (nel 1930 toccava i settant’anni, ma sarebbe ancora campato a lungo) era una fonte impareggiabile di storie e di notizie. Non solo per la sua parentela con il grande capo guerriero. Quell’uomo – un Lakota della banda degli Oglala per l’anagrafe dei nativi – aveva visto tutto, alla tragica epica del suo popolo aveva partecipato come sciamano e come guerriero, dalla vittoria su Custer a Little Big Horn, nell’estate del 1876, al massacro di Wounded Knee (dicembre del 1890).

Quello che Neihardt non poteva immaginare, e che solo ascoltando e trascrivendo avrebbe appreso, è il fatto che uomini come Alce Nero e Cavallo Pazzo avevano vissuto la loro vita su due diversi piani di realtà: quello visibile dove si svolgono i fatti, a volte fatti storici, e quello dove le cose dimorano eterne, totalmente comprensibili, fatte di spirito. E dunque, se il bianco voleva ascoltare di cacce al bisonte e battaglie, Alce Nero lo avrebbe accontentato e insieme ingannato, perché ciò che accade agli uomini, in questo mondo, non è che l’ombra del «vero mondo», quel luogo spirituale dove il cosmo si rende percepibile nella sua totalità, in cui Alce Nero venne rapito quando non aveva ancora dieci anni. Tutta la sua esistenza, per quanto ricca di eventi eccezionali, non sarebbe stata che una specie di nota a margine, di pallido riflesso di quella Grande Visione.

Un tempo, queste memorie si perpetuavano all’interno di un popolo, per generazioni e generazioni. Ispiravano canti e preghiere e complesse liturgie. Ma nel 1930, il popolo dei Sioux era distrutto, sconfitto, condannato: di questo Alce Nero doveva ormai essere sicuro. Perché gli uomini potessero avvantaggiarsi dei profondi e salvifici significati della Visione, bisognava adattarsi ai tempi, confidarla a un estraneo. John Neihardt lo convinse al primo sguardo. Alce Nero ebbe l’impressione, quella mattina d’agosto del 1930, di averlo sempre aspettato.
Quel Dante analfabeta aveva un’idea molto vaga di cosa facesse uno «scrittore». Per lui era un vaso, un ricettacolo a cui consegnare una memoria prossima all’estinzione. Elemire Zolla ha paragonato il caso di Alce Nero a quello di Ogotemmeli, il sapiente che raccontò a Marcel Griaule tutti i segreti della metafisica dei dogon. In entrambi i casi, un vecchio, che è l’ultimo depositario di tradizioni millenarie, le confida e affida a uno straniero, un uomo bianco. E dunque all’incomprensibile magia della scrittura. Ma tra Griaule e Neihardt ci sono anche differenze interessanti: il primo è uno studioso raffinatissimo, uno dei padri dell’antropologia moderna; del secondo basterà dire che aveva messo in versi epici l’epopea del West, inneggiando al fatale trionfo della razza ariana. Fino ai suoi ultimi giorni (come Alce Nero, fu molto longevo) sostenne l’ineluttabilità del genocidio dei nativi americani. Alle sue ferree convinzioni razziali e filosofiche Neihardt, questo hegeliano del Nebraska, associò dosi variabili di sentimentalismo e paternalismo. Nessuno al mondo si sarebbe ricordato di lui, se Alce Nero non avesse riconosciuto in quell’uomo che non aveva mai visto proprio colui che aspettava.
In questo, si dimostrò forse ancora più geniale e ironico di Ogotemmeli, il suo collega africano. Mi piace pensare che con la sua percezione sottile Alce Nero si accorse subito dei limiti, della fondamentale ottusità di quel viso pallido. Evidentemente non cercava un confronto, un’impossibile fusione di orizzonti, ma qualcuno che sapesse ascoltare.

Con tutte le sue idee assurde e il suo velleitarismo letterario, Neihardt si dimostrò all’altezza del compito. Dopo il primo incontro, nel maggio del 1931 si stabilì vicino alla casetta di tronchi di Alce Nero, «a due miglia circa a ovest», come precisa una nota del libro, «dall’Ufficio Postale di Manderson». Lo accompagnavano le figlie, Enid e Hilda, che stenografarono il racconto di Alce Nero così come Ben, il figlio dello sciamano, lo traduceva in inglese. Gli ospiti alloggiavano in una tenda sacra, sulla quale Alce Nero e i suoi amici avevano dipinto arcani simboli esoterici.
È giusto che sia stato Neihardt a firmare il libro, pubblicato nel 1932? Direi di sì, non fosse altro che per il fatto che è stato lo scrittore americano a creare un equivalente verbale, di straordinaria efficacia e suggestione, della voce di Alce Nero. Sta lì il grande segreto del libro: un segreto artistico, forse artigianale, perfettamente adeguato ai suoi profondi significati spirituali. Ne venne fuori uno di quei testi, si contano sulla punta delle dita, che se nella vita si leggesse solo quello, basterebbe e avanzerebbe. Come l’Odissea, o la Bhagavad Gita.

Il compito degli avi
Ancora oggi, basta aprirlo a caso e la voce di Alce Nero è lì ricordarci che ogni vita umana si svolge simultaneamente nel visibile e nell’invisibile, nel profano dove tutto è imprevedibile e nel mondo degli spiriti dove tutto è già accaduto.
La foto che li ritrae assieme, lo stregone e lo scrittore, vestiti all’occidentale, come due musicisti jazz sulle strade della Grande Depressione, è commovente. Alce Nero aveva avuto ragione a fidarsi. Prima che fosse troppo tardi, quell’ometto con gli occhiali non aveva salvato una semplice vita umana, passeggera come l’erba e le nuvole, ma un’intera concezione della realtà, diversa da ogni altra e per questo insostituibile. In fondo era proprio questo il compito che gli Avi, al culmine della grande visione, avevano affidato ad Alce Nero.