Quattro anni fa Andrea Pallaoro aveva esordito, sempre a Venezia ma nella sezione Orizzonti, con Medeas, opera prima del regista trentino che vive negli Stati uniti, dove il film era ambientato. Per il suo secondo lavoro – Hannah, presentato in concorso – Pallaoro si sposta invece in Europa, in un’anonima città della Francia: «La prima stesura del film – spiega – era ambientata in America ed era molto diversa, non nell’osservazione della protagonista ma nel contorno sociale». La sua Hannah è invece stata da subito scritta e pensata – «fin dalla prima parola» – per Charlotte Rampling, a cui il regista racconta di aver mandato il primo draft della sceneggiatura insieme a una copia di Medeas. «Lei rispose subito positivamente. Dal nostro primo incontro sono poi passati due anni e mezzo prima che si iniziasse a girare, durante i quali ci siamo conosciuti e abbiamo instaurato un rapporto che ci consentiva di prenderci dei rischi, di fare dei salti nel vuoto».

Come nasce il personaggio di Hannah?

Sono stato sempre attratto da personaggi emarginati, con i quali la società sa essere crudele. Tutto è cominciato leggendo dei fatti di cronaca, dai quali è nato il desiderio di raccontare la storia di una donna intrappolata dalle scelte che ha fatto, paralizzata dalle sue insicurezze, dal senso di lealtà e devozione nei confronti della sua famiglia.

Il film è fondato su una storia che resta fuoricampo.

Volevo fare in modo che il pubblico riflettesse solo sul personaggio di Hannah, quindi ho evitato «spiegazioni» che potessero dare conclusioni o risoluzioni. Punto a fare un cinema catartico, e per me in quanto spettatore la catarsi arriva quando riesco a vedermi riflesso in un personaggio. Volevo consentire a chi guarda di essere coinvolto in modo attivo, di farsi delle idee individuali, di trovare un proprio significato e una propria strada all’interno della vicenda.

L’ispirazione si basa su un fatto di cronaca, ma il film non racconta il carnefice bensì chi gli sta accanto…

È attraverso la cronaca che sono arrivato a pormi la domanda principale del film: qual è la disperazione che prova questa donna? Cosa succede alla sua identità quando viene messa in discussione la vita che ha condiviso con un’altra persona, in cui si identificava? Il film nasce proprio dal desiderio di «starle vicino», provare a comprenderla. Il reato del marito non viene esplicitato proprio per concentrarsi senza distrazioni sulla sua sofferenza.

Gran parte del film si svolge in interni, e la città in cui vive Hannah è anonima, volutamente non connotata.

Insieme al direttore della fotografia abbiamo cercato di riflettere il più possibile il dialogo fra interno e esterno, tra la psicologia di Hannah e l’ambiente fisico in cui si muove. Hannah si basa sul non detto come sul non mostrato: anche in questo caso, con la fotografia e il suono, abbiamo voluto stimolare la partecipazione di chi guarda giocando di sottrazione. Per esempio non vedremo mai il contenuto della busta che la protagonista trova dietro l’armadio.

L’unico svago di Hannah sono dei corsi di teatro

Abbiamo scelto di farle frequentare un corso amatoriale di recitazione per investigare il rapporto tra realtà e finzione, tra la sua interiorità e la performance. È molto significativo che gli unici momenti in cui la vediamo realizzarsi realmente siano proprio quelli in cui fa teatro.