«La cosa più inaspettata che accada a chi entra nella vita sociale, e spessissimo a chi v’è invecchiato, è di trovare il mondo quale gli è stato descritto, e quale egli lo conosce già e lo crede in teoria». Queste righe, amare e disilluse, compongono l’ultimo pensiero affidato da Giacomo Leopardi al suo Zibaldone il 4 dicembre 1832: e proprio tale nota conclusiva è obliquamente riferita da Nico Naldini nell’epilogo fantasmatico del suo Il treno del buon appetito, divagante memoriale uscito per Guanda nel 1996 e oggi proposto dall’editore Ronzani di Vicenza, in una ristampa assai curata, con un’intensa prefazione di Franco Zabagli (pp. 224, € 22,00). Un libro, al suo primo apparire, silenziato da una qualche distrazione critica ma che merita l’odierna riscoperta in virtù della tessitura numinosa di ricordi ed echi letterari, secondo un vaglio caro alla scrittura dell’autore.
Revenants e solitudine
Il rinvio allo Zibaldone è d’altronde tutt’altro che irrilevante per questo album ideato da Naldini ricorrendo alle istantanee di una vita intera, dall’infanzia alla piena maturità. Non esclusivamente perché, nel contesto di una pagina popolata da revenants e solitudine, il pensiero leopardiano è richiamato per suggerire il raccapriccio suscitato da spettri mondani, nient’affatto benevoli, in tutto ordinari, ma soprattutto in quanto, nel teatro d’ombre delle rimembranze, è il magistero del poeta di Recanati a segnalare un’alternativa al disinganno imposto dal continuo esercizio dei giorni.
È vero infatti che nel Treno del buon appetito si racconta di come il personaggio-autore – classe 1929, nativo di Casarsa, cugino per parte di madre di Pier Paolo Pasolini – abbia scelto, di fronte ai dolori di un lutto o di un’attrazione ormai spenta, le tappe disseminate di una geografia erratica, dal Friuli a Roma, da Venezia alla pianura padana, al Marocco, alle Alpi; ma è in particolare la distanza prospettica e cronologica dagli uomini, dai luoghi, dalle cose a garantire la salvezza dalle ben note asperità dell’esistente.
Già nel 1981 Naldini aveva delineato un ritratto di Leopardi, partendo dall’epistolario: non stupisce allora che nel Treno sia proprio la pratica della lontananza – la quale impone allo sguardo i filtri di una foto, di una finestra, delle «garze della nebbia lagunare», ma anche quelli (più densi, meno trasparenti) dell’assenza, della depressione, del desiderio – a indicare la via unica per sopravvivere alla realtà dura e tagliente delle ore e dei minuti in una finzione affettuosa e artificiale. Una pratica, insomma, che costruisce le parole nella sintassi aperta ed evocativa del verso lirico: perché, anche nella prosa, Naldini è un poeta, «poeta sul serio e di vocazione», per citare un titolo riconosciutogli dall’amico di sempre Goffredo Parise.
Aiuole rosseggianti
Invita a una simile prospettiva uno dei più efficaci anedotti consegnati alle pagine chiare dell’aureo libretto, affidato al lettore commosso: quello cioè in cui si racconta di come, durante una passeggiata con Sandro Penna in una pausa dalle cacce d’amore nei pubblici giardini di una Roma notturna, i due avessero riconosciuto «delle aiuole … che rosseggiavano nelle ombre»; e quanto, una simile scoperta, avesse accesso in loro condivise immagini libresche. «“Su quei fiori ho scritto una poesia”, mi disse, “ma ho messo ‘purpureo fiore sconosciuto’ perché non conosco il loro nome”. I versi del Vegetale passarono su di noi come una carezza. “Ma sono gladioli!” esclamai io rompendo l’incanto del fiore sconociuto».
Nulla interviene invece a disturbare l’armonia affabile del «pasticcio» di ricordi miscelati da Naldini; ché anche i cedimenti, i momenti accecanti in cui la passione restringe gli spazi, nei quali lo slancio amoroso ridisegna le geometrie ingiungendo prossimità inedite e terribili dipendenze, si impongono in fondo come prove in negativo della necessità di uno schermo, di una dislocazione.
Non a caso al turbinio popoloso di ragazzi, militari e marinai, gondolieri e perditempo – spesso al centro di attenzioni e cure, sempre obiettivo di complessi rituali, di manovre di avvicinamento, un vademecum della seduzione – Naldini oppone un catalogo di amici (un Pasolini privato, i compagni di inquieti battuage, Penna o Giovanni Comisso, gli arbitri elegantiarum, Filippo De Pisis e Parise) che – pur nell’intimità del racconto – si traduce prontamente in un infomale canone letterario.
Basta guardare alle date di nascita, per farsi un’idea del beninteso intervallo generazionale fra Naldini e i suoi maestri: Comisso e De Pisis nati nella pausa di un anno, fra 1895 e 1896, figli addirittura di un altro secolo; Penna venuto al mondo sullo scorcio del Novecento; Pasolini già abbastanza grande, alla comparsa del cugino, per guardarlo con la curiosità di un bimbo in età scolare; coetaneo Parise (anzi, «il solo fratello»), nato anch’egli nel ’29, ma forte – nei racconti del Treno – di una più certa sicurezza sociale, estraneo alla condizione di diversità condivisa dagli altri nomi illustri (il padre dei Sillabari è l’unico eterossessuale in una galleria di uranisti dall’eros antico).
Fra un flashback e l’altro Così, quasi ad accreditare una maledizione originaria denunciata fra un flashback e l’altro («io ero giunto ultimo in famiglia e ho sempre fantasticato che coloro che mi avevano preceduto … mi avevano sollevato dalla fatica di riconoscere ciò che era meglio apparisse subito evidente»), Naldini sceglie di rischiarare il proprio percorso attraverso i palinsesti esistenziali dei suoi ‘maggiori’: e nel far questo traccia anche, in termini filologici, una specie di linea dello stile, nel più ampio affresco delle lettere italiane, cui egli stesso ha dedicato la fatica non leggera di una produzione critica coniugata nelle forme di biografia intergenerazionale.
La sua vita di Comisso risale all’85, quella di De Pisis al ’91, la prima redazione del profilo di Pasolini rimonta invece al 1989: opere tutte pensate per Einaudi in una stagione particolarmente felice per la bibliografia di Naldini.
Colpisce, tuttavia, il confronto fra tali ponderose imprese coll’esile trama del Treno del buon appetito. In quest’ultimo lo scrittore piega ogni memoria all’allusività di un imperfetto indeterminato o al distacco di un perentorio passato remoto; nelle prime, al contrario, adotta il presente storico con una costanza che non può che parafrasare un partito preso estetico e ideologico. Al di là delle ragioni legate alla leggibilità di un testo, una simile, indiretta consecutio sembra pertanto legata al riconoscimento di un’attualità duratura per la ‘lezione’ dei suoi protagonisti: e se si accetta una lettura siffata, si dovrà anche concordare come les neiges d’antan del Treno interpretino invece il rimpianto di un tempo perduto, di un’estinta rete di rapporti e influenze.
Lontanto però dall’ammutolito risentimento per la vita scomparsa, Naldini non smette di ricordare, a un tempo rivendicando il proprio privilegio ereditario: ed è allora tanto più importante che un nuovo editore dalle scelte raffinate come Ronzani torni a far ascoltare la sua voce, ripubblicandone una delle testimonianze più sensibili e coinvolgenti.