Arriva in ritardo al nostro appuntamento Jafar Farah, il direttore di Mossawa, ong palestinese che, come dice il nome in arabo, si batte per l’uguaglianza tra cittadini arabi e ebrei in Israele. Si scusa, spiega il ritardo con «un incontro molto interessante» sulle elezioni durato più del previsto. «C’è un cauto ottimismo» esordisce «non che la condizione degli arabo israeliano sia destinata a migliorare dopo il voto, però registro ovunque una maggiore unità di intenti e un forte desiderio di incidere, di contare. E ciò è molto importante se si vuole condurre una battaglia politica e sociale. Sono sicuro che il 2 marzo registreremo nei centri arabi una percentuale di votanti superiore alle attese».

 

Lo scorso 9 aprile, la prima delle tre consultazioni elettorali in meno di un anno tenute in Israele, l’affluenza alle urne degli arabo israeliani (20% della popolazione) fu del 50%. Al voto del 17 settembre è salita al 60% e domani, secondo gli ultimi sondaggi disponibili, potrebbe toccare il 65%. Una partecipazione che, se confermata, darà uno forse due seggi in più alla Lista araba unita, alleanza di quattro partiti che già vanta 13 seggi alla Knesset. Una ulteriore crescita la confermerebbe come terza forza politica di Israele, dietro il Likud del premier e leader della destra ultranazionalista Benyamin Netanyahu e la lista centrista Blu Bianco guidata dall’ex capo di stato maggiore Benny Gantz.

 

«Il 9 aprile (del 2019) tra gli arabi di Israele regnava la frustrazione per l’approvazione, pochi mesi prima, della legge fondamentale che ha proclamato Israele-Stato della nazione ebraica. Forte era stata anche la delusione per la spaccatura emersa nella Lista araba in un momento tanto delicato» spiega Farah «poi è tornata l’unità politica, la frustrazione è cessata e al suo posto è subentrata una crescita del sentimento identitario. In sostanza abbiamo detto a chi ha voluto quella legge: siamo qui e lotteremo per i nostri diritti. I risultati si sono visti già il 17 settembre». Domani andando a seggi elettorali, sostiene il direttore di Mossawa, i palestinesi di Israele si faranno portatori di proposte nuove, valide per tutti i cittadini. «La sinistra sionista è svanita – spiega – e Benny Gantz si è dimostrato un leader di fatto della destra dicendosi d’accordo con il piano disastroso annunciato da Trump (Accordo del secolo, ndr) ed escludendo una coalizione di governo allargata agli arabi in Israele». La Lista araba, aggiunge Farah, «oggi rappresenta in Israele l’unica barriera progressista alla destra e si rivolge ad ebrei e arabi in nome di un futuro diverso e migliore per tutti, inclusi i palestinesi sotto occupazione».

 

L’analisi di Farah trova consensi tra migliaia di israeliani ebrei. E non a caso il leader della Lista araba, Ayman Odeh, ha condotto una campagna elettorale volta a presentare il suo schieramento non più rappresentativo solo dell’identità palestinese e dei diritti non realizzati degli arabi in Israele. Bensì come una proposta politica inclusiva. Odeh ha nominato un responsabile della campagna della Lista araba presso gli elettori ebrei e per la prima volta  i suoi manifesti elettorali sono apparsi anche a Bnei Brak, città alle porte di Tel Aviv abitata da ebrei ortodossi. Secondo la giornalista di Haaretz, Judi Matz, la Lista araba otterrà un seggio più grazie ai voti degli ebrei che vedono rappresentata in essa l’unica sincera opposizione al piano Trump. Concorda l’avvocato Sawsan Zaher del centro arabo di assistenza legale Adalah, secondo cui il cambio di marcia di Odeh, che tra le altre cose ha annunciato che la Lista araba non farà accordi con Gantz ricucendo la frattura avvenuta dopo le elezioni di settembre con gli alleati di Tajammo (Balad), «spingerà alle urne quelli che non votano perché considerano le elezioni inutili e la Lista araba superflua perché non andrà al governo».

 

A compattare la minoranza araba in Israele ha contribuito anche l’annuncio dell’Accordo del secolo. La “proposta di pace” di Trump fa riferimento a scambi territoriali e a modifiche delle linee di confine con Israele che, senza prevedere trasferimenti di popolazione, sposterebbe con un semplice tratto di penna 260mila arabo-israeliani – residenti nel cosiddetto Triangolo a ridosso della Cisgiordania – nello Stato palestinese senza sovranità che la Casa Bianca ipotizza nei Territori occupati. Netanyahu ha promesso che non avverrà ma nel Triangolo non si fidano di chi ha dimostrato di guardare ai cittadini arabi come dei nemici pericolosi. Alle elezioni di cinque anni fa il premier implorò i cittadini ebrei ad andare alle urne per neutralizzare l’affluenza registrata nei centri abitati arabi. E alcuni esponenti della destra, come l’ultranazionalista Avigdor Lieberman, abbracciano l’idea del “transfer”. «Le preoccupazioni sono fondate – afferma la ricercatrice Ivana Bevilacqua, attualmente nel Triangolo per uno studio sullo status delle comunità arabe per conto del King’s College di Londra – al di là del piano Trump, i centri abitati arabi nel Triangolo sono già stati chiusi in una sorta di recinto dopo la costruzione dell’autostrada 6, della statale 65 e della nuova città di Harish in cui dovrebbero andare a vivere 100mila israeliani ebrei. I centri arabi invece non hanno terre per espandersi, sono state confiscate, e sono destinati ad una lenta decadenza».

 

Domani anche i voti dei giovani palestinesi saranno determinanti per il risultato elettorale. «Vogliamo essere considerati cittadini come gli altri e non più come una minaccia per la maggioranza ebraica solo perché siamo palestinesi», afferma Wadie Aboud, 19 anni, di Wadi Nisnas che vede Netanyahu a capo del governo da quando era alle elementari. «Vogliamo conservare la nostra identità palestinese – aggiunge – ed essere allo stesso tempo cittadini a pieno titolo, avere gli stessi diritti e le stesse opportunità di studio e lavoro degli israeliani ebrei. E la Lista araba ci aiuterà a combattere le leggi razziste che ci hanno colpito». Negli ultimi 15 anni il livello di alta istruzione tra i palestinesi in Israele è cresciuto sensibilmente. Le discriminazioni nell’impiego pubblico (ad eccezione della scuola) attuate nei loro confronti da un lato hanno aumentato la disoccupazione giovanile nei villaggi e nelle cittadine arabe e dall’altro spingono un numero crescente di giovani diplomati ad iscriversi a facoltà universitarie che danno accesso alla libera professione. Kufr Kara (18mila abitanti) ad esempio è il centro abitato in Israele con la più alta percentuale di laureati ma è in basso nelle statistiche ufficiali per l’occupazione. «Parliamo di professioni ad alta specializzazione eppure lo Stato guarda con occhi diversi ai cittadini arabi e continua tenerli ai margini» spiega Jafar Farah «i nostri giovani non lo accettano, vogliono che sia riconosciuta la loro identità e godere delle possibilità offerte al resto della popolazione».