Ieri mattina Hamza Matrouk, 23 anni, ha lasciato il campo profughi di Tulkarem, è entrato illegalmente in Israele, è salito a bordo di un autobus a Tel Aviv e ha accoltellato 11 persone, prima di venire fermato dal fuoco di una guardia carceraria.

Arrestato e interrogato dallo Shin Bet, i servizi segreti israeliani, il ragazzo avrebbe affermato di aver agito in risposta all’offensiva militare contro Gaza e alle provocazioni israeliane alla Spianata delle Moschee.

Dalla Striscia arriva il commento di Hamas, che definisce l’attacco «la naturale reazione» di una popolazione oppressa: «Non esiste terrorismo peggiore di chi occupa un popolo, ruba terre, libertà e dignità», ha commentato Abu Marzouq, leader del movimento islamista. Ahmad Bahr, vice presidente del parlamento palestinese e portavoce di Hamas, chiede all’Autorità Palestinese di abbandonare il dialogo, bollato come perdita di tempo e strumento in mano israeliana per proseguire nella giudaizzazione di Gerusalemme.

Immediata si è sollevata la voce del premier Netanyahu che, come accaduto in passato, ha accusato l’Anp: «L’attacco è il risultato diretto del velenoso incitamento da parte dell’Autorità Palestinese verso gli ebrei e il loro Stato – ha tuonato – Questo è lo stesso terrore che ha tentato di danneggiarci a Parigi, Bruxelles e ovunque». Stessa musica dal leader di Casa Ebraica Bennett che ha puntato il dito su Abbas: «L’uomo responsabile dell’attacco è la stessa persona vista marciare con i leader mondiali a Parigi e che continua a finanziare le famiglie dei terroristi».

Il premier, in vista del voto, agita lo spettro della sicurezza per accaparrarsi consenso, in calo secondo i sondaggi pre-elettorali che assegnano 25 seggi al Campo Sionista (formato dai laburisti e dai centristi di Hatnua della Livni), contro i 20-22 del Likud, partito del premier, i 16 di Casa Ebraica e i 5 di Yisrael Beytenu di Lieberman.

Ma stavolta invece di attaccare Hamas, i vertici israeliani mirano direttamente al presidente Abbas: va screditato, indebolito più di quanto non lo sia già, perché colpevole agli occhi di Tel Aviv di perseguire la pericolosa strada del diritto internazionale. Il tandem Netanyahu-Lieberman ha bisogno delle simpatie occidentali per poter infilare sia Hamas che il moderato Abbas nel comodo calderone del terrorismo islamista e distruggere definitivamente la possibilità di un negoziato, addossandone la colpa alla controparte palestinese.

Eppure dietro l’attacco di Tel Aviv non c’è Hamas, né altre fazioni: secondo la stampa locale, Matrouk non era affiliato a gruppi politici. Piuttosto l’episodio di ieri segue ad una serie di altri attacchi perpetrati da palestinesi, azioni individuali figlie della frustrazione per le condizioni in cui versa il popolo palestinese. Sia nei Territori, dove l’occupazione militare non smette di mordere; sia in Israele, dove a colpire sono le discriminazioni quotidiane verso i cittadini non ebrei.

Dal 13 giugno, giorno in cui scomparvero i tre coloni israeliani (trovati morti il primo luglio), Israele ha avviato una dura campagna contro i Territori. Nel 2014, secondo dati Onu, sono stati 54 i palestinesi uccisi in Cisgiordania dal fuoco israeliano e 5.800 i feriti; oltre 2.150 le vittime a Gaza: un tasso di violenza che non si registrava dal 2005.