Esercitando pressioni fortissime su Abu Mazen e offrendo, ma solo a parole, alcune delle garanzie richieste dai palestinesi, il Segretario di stato John Kerry è riuscito alla sesta missione in Medio Oriente a raggiungere il suo obiettivo dichiarato: la ripresa del negoziato bilaterale israelo-palestinese. «Se tutto va come deve», la ripresa dei colloqui sarà a Washington, dove la settimana prossima sono attesi i negoziatori delle due parti, ha annunciato Kerry, precisando però che i contenuti dell’accordo preliminare non sono stati ancora definiti e che, pertanto, conviene mantenere il riserbo sulla dichiarazione di intenti accettata dalle due parti. Si è solo saputo che a Washington si vedranno i negoziatori ufficiali delle due parti: il palestinese Saeb Erekat e la ministra israeliana Tzipi Livni.
La formula descritta da Kerry fa capire che il Segretario di stato ieri a Ramallah ha strappato il via libera di un Abu Mazen che l’altra sera era stato bloccato dai vertici di Fatah, il suo partito, e del Comitato esecutivo dell’Olp. Poi è rientrato ad Amman, dove ha fatto base in questi giorni, e ha annunciato la ripresa dei negoziati. Secondo le scarne informazioni divulgate da parte palestinese, il nodo della questione era rappresentato dalle linee armistiziali antecedenti la guerra del 1967 che – nella visione palestinese – dovranno essere necessariamente il punto di partenza di future trattative di pace. Ma Israele si oppone. Si dice disposto a «parlare di tutto» al tavolo dei negoziati, ma senza «puntelli» iniziali. Un’altra questione è la scarcerazione di un certo numero di prigionieri politici palestinesi. Secondo indiscrezioni Kerry avrebbe promesso ad Abu Mazen che ne saranno liberati 350, molti dei quali condannati a lunghe pene detentive, ma non si sa se ci sia un assenso del premier israeliano Benyamin Netanyahu. Appare improbabile che tra i detenuti da liberare venga inserito anche Marwan Barghouti, popolare leader di Fatah e «comandante della seconda Intifada». I palestinesi da anni insistono per rivederlo libero. Netanyahu è fortemente contrario alla sua scarcerazione.
Da quel poco che si è saputo e capito ieri sera, mentre chiudevamo questo numero del nostro giornale, Kerry ai palestinesi ha fatto molte promesse economiche pur di convincerli a rinunciare a una dichiarazione ufficiale israeliana che la base della trattativa sono le linee del 1967 e ad una indicazione generale da parte di Netanyahu dei confini tra Israele e Palestina, da sottoporre a eventuali modifiche e scambi territoriali. La questione è centrale. Se il premier israeliano offrisse subito una descrizione dei confini futuri del suo paese, allora si conoscerebbero subito le colonie ebraiche in Cisgiordania escluse dal territorio di Israele. Passo che Netanyahu non vuole muovere per motivi ideologici ma anche di politica interna. Sa che le reazioni del movimento dei coloni sarebbero fortissime e che la sua coalizione di governo (colma di ultranazionalisti) finirebbe per spaccarsi.
Appare evidente inoltre la rinuncia dei vertici di Fatah e dell’Olp alla condizione sulla quale i palestinesi hanno insistito negli ultimi anni: lo stop totale della costruzione ed espansione delle colonie israeliane in Cisgiordania e a Gerusalemme Est. La dichiarazione di intenti, ora imperniata sulle linee del ’67 e, pare, il riconoscimento dell’identità ebraica di Israele, non la conterrebbe. Sembra averla spuntata Netanyahu che si è rifiutato di congelare tutte le costruzioni negli insediamenti.