Laila Issawi ha capito subito che quei soldati, quelle camionette, apparse all’improvviso davanti casa, erano lì per suo figlio Samer. D’impulso si è messa al computer, per lanciare l’allarme. Ma nel giro di qualche minuto è arrivata la conferma. Lunedì sera Samer Issawi, protagonista del più lungo sciopero della fame in un carcere israeliano, è stato arrestato a casa del fratello Mehdat, a Isawiyya, un sobborgo di Gerusalemme. Era stato liberato lo scorso dicembre sulla base dell’accordo raggiunto qualche mese prima con Israele che aveva messo fine a 266 giorni di digiuno di protesta contro la sua detenzione. Qualche mese fa è stata arrestata anche la sorella Shirin. «Samer sapeva che gli israeliani non avrebbero rispettato l’accordo e che presto o tardi sarebbe tornato in prigione», raccontava ieri il padre Tareq.

 

La notizia dell’arresto di Samer Issawi ha fatto il giro della rete. La battaglia contro la “detenzione amministrativa” – senza prove e senza processo – portata avanti prima da Issawi e ora da centinaia di prigionieri politici in sciopero della fame dal 24 aprile, è seguita in ogni angolo di mondo. Grazie ai social perchè i media tradizionali, in buona parte, la ignorano nonostante la “misura cautelare” attuata da Israele sia contraria alle leggi internazionali e sia stata condannata più volte dalle organizzazioni per la tutela dei diritti umani. Come ignorano la portata e le conseguenze dell’operazione militare “Brother’s keeper” lanciata da Israele dopo la scomparsa il 12 giugno nella Cisgiordania meridionale di tre ragazzi ebrei, probabilmente rapiti dal movimento islamico Hamas. Ufficialmente “Brother’s keeper” è una campagna per la ricerca dei tre adolescenti – Eyal Yifrach, Gilad Shaar e Naftali Fraenkel, tra i 16 e i 19 anni, – con l’impiego di migliaia di soldati. Sino ad oggi però si è manifestata soprattutto come una clava per colpire Hamas e per infliggere una punizione alla popolazione palestinese che, non è un mistero, vede nel rapimento un mezzo per ottenere la liberazione dei detenuti politici chiusi nelle carceri israeliane. I palestinesi arrestati in 12 giorni sono almeno 471 (11 sono deputati del Consiglio legislativo, tra i quali lo speaker Aziz Dweik). Israele ne conferma 354. In questi giorni l’esercito israeliano ha anche effettuato perquisizioni – veri e propri raid distruttivi, denunciano i palestinesi – in 1800 edifici e abitazioni civili, istituzioni pubbliche, scuole, università e in sedi di mezzi d’informazione. In città e campi profughi.

 

E’ subito cresciuto anche il numero dei detenuti “amministrativi”. Addamir, l’associazione che sostiene i prigionieri politici (in totale oltre 5 mila), ha documentato 104 nuovi ordini di questo tipo di detenzione. E quando i palestinesi hanno provato ad opporsi alle incursioni, i soldati israeliani non hanno esitato a sparare – “per legittima difesa”, spiega un portavoce dell’Esercito – facendo almeno cinque morti, tra i quali un 15enne di Dura (Hebron), Mahmud Dudin, colpito in pieno petto da un proiettile. Qualche anno in meno di Dudin aveva Ali al-Awour, un bambino ucciso a metà giugno, a Gaza, da un missile sganciato da un drone israeliano contro un presunto miliziano jihadista. E gli stessi anni o poco più avevano gli altri quattro ragazzi palestinesi uccisi dalle forze militari dall’inizio del 2014: Adnan Abu Khater, 16 anni; Yousef al-Shawamrah, 14 anni; Muhammad Salameh, 16 anni; Nadim Nawarah, 17 anni.

 

Chiedere che i tre ragazzi israeliani facciano al più presto ritorno a casa sani e salvi è doveroso. Allo stesso tempo è inaccettabile l’atteggiamento di buona parte del mondo politico ed istituzionale in Occidente che rimane in silenzio quando l’occupazione militare israeliana uccide ragazzi palestinesi, spesso bambini, e ne incarcera tanti nelle sue prigioni. Non esistono esseri umani di serie A e serie B.

 

Oggi molto più di qualche anno fa si tende ad ignorare in Occidente la realtà quotidiana dei palestinesi e a considerare le incursioni militari israeliane quasi come normali “operazioni di polizia” contro criminali comuni e non come attività di una forza di occupazione. Questi, ad esempio, sono i giorni in cui i decine di migliaia di ragazzi della Cisgiordania sono impegnati negli esami di maturità e all’università. E i raid militari israeliani hanno un impatto devastante su questi giovani, come raccontano Aisha Shalash e Hanin Dweib, due studentesse dell’università di Bir Zeit. «La notte del 18-19 giugno – hanno scritto le due giovani in un messaggio postato in rete – mentre eravamo impegnate negli esami finali di laurea, anche il nostro campus universitario è stato perquisito…Abbiamo visto le immagini dell’esercito israeliano che riempiva le strade del campus, sfasciando porte di acciaio e di legno…I soldati hanno trovato solo le bandiere, i manifesti e gli accessori utilizzati nelle elezioni studentesche, li hanno confiscati e se ne sono andati..(dopo) abbiamo continuato a chiederci: perché stanno facendo questo? Perché sconvolgono il nostro studio e i nostri esami? Non siamo forse umani? Non abbiamo il diritto all’istruzione? A un futuro di speranza? A una vita in libertà di giustizia e pace? Perché il mondo non ascolta mai noi palestinesi?»