Scuote la testa Fadi Aruri. «È un Primo Maggio in agrodolce» ci dice «per i palestinesi resta un giorno importante che unisce la lotta per i diritti dei lavoratori a quella contro l’occupazione israeliana. Ma per me – aggiunge – è anche un giorno di grande frustrazione perché la nuova legge sul lavoro non è stata ancora approvata». Giornalista e attivista nel mondo del lavoro, Arouri è stato uno dei protagonisti delle mobilitazioni popolari per la riforma del Sistema nazionale di sicurezza sociale, l’Inps palestinese nato appena qualche mese fa. «Ovviamente tutti vogliamo avere una pensione, è un diritto sacrosanto – spiega – ma senza la nuova legge sul lavoro, senza l’aumento del salario minimo fermo a 390 dollari, e la certezza che i contributi versati non saranno usati per altri fini e non per le pensioni, dobbiamo restare vigili e continuare a reclamare diritti per ogni lavoratore del settore pubblico e di quello privato». Il giornalista/attivista ricorda che «tutto è così precario sotto occupazione militare israeliana» e che l’Autorità nazionale palestinese «sta affrontando una grave crisi finanziaria e noi vogliamo che i soldi del fondo pensioni siano ancora lì quando i lavoratori raggiungeranno l’età pensionabile».

Arouri, alcuni sindacalisti e attivisti sono ora impegnati ad ottenere l’istituzione di un “tribunale del lavoro” che garantisca la possibilità di presentare un ricorso legale a tutela dei lavoratori nei territori di Cisgiordania e Gaza. E, aggiunge, «abbiamo altre due priorità: la lotta alla disoccupazione galoppante e la fine o almeno una forte riduzione degli incidenti sul lavoro». Il tasso di disoccupazione in Palestina ha raggiunto nel 2018, il 31% della forza lavoro rispetto al 28% nel 2017. In un anno il numero dei disoccupati è aumentato da 377.000 a 426.000 secondo i dati diffusi dall’Ufficio centrale di statistica palestinese (PCBS) in occasione del Primo Maggio. La disoccupazione è leggermente diminuita in Cisgiordania mentre a Gaza ha toccato il 52% rispetto al 44% del 2017. Inoltre il 44% dei giovani palestinesi tra i 19 e i 29 anni non ha un lavoro e tra questi il 58% sono laureati. Il salario giornaliero medio nel settore privato è di 70 shekel (17 euro, con le punte minime a Gaza). Paghe da fame alle quali riescono a sfuggire gli oltre 100mila manovali palestinesi che entrano quotidianamente in Israele dopo aver affrontato, tutte le mattine, controlli molto severi.

Non pochi manovali a sera, dopo il lavoro in Israele o in Cisgiordania e Gaza, non fanno ritorno a casa. «Gli incidenti, soprattutto nei cantieri edili, che si concludono con la morte o il ferimento grave del lavoratore purtroppo sono molto frequenti», ci dice Moreno Capitalini, uno dei responsabili del progetto italiano per la sicurezza sul lavoro in Palestina partito un anno fa grazie a un finanziamento dell’Agenzia governativa italiana per la cooperazione allo sviluppo (Aics) e alla collaborazione del comune di Gubbio. «A marzo – prosegue Caporalini – abbiamo inaugurato a Ramallah la sede del centro per la formazione e la sicurezza nelle costruzioni, un settore fondamentale che contribuisce per il 14% al Pil palestinese».

Ogni anno sono migliaia nei Territori occupati le vittime degli incidenti che si registrano nei cantieri. Nel 2018 sono stati più di cento quelli mortali a causa della inadeguatezza, a dir poco, delle misure di sicurezza adottate dalle imprese a tutela dei lavoratori. «L’apertura del centro per la formazione degli imprenditori edili è importante ma è solo una tappa del percorso che porta alla tutela del lavoratore palestinese», avverte Caporalini.