Territori occupati non c’è alcuna fiducia sull’esito delle trattative con Israele. Il senso di scetticismo che si avverte facendo un semplice giro nei centri abitati, scambiando qualche battuta con la gente, è confermato anche da un sondaggio del Palestinian Center for Public Opinion. Rispetto alla Cisgiordania e a Gerusalemme Est, Gaza è leggermente più ottimista – il 42,6% è favorevole al proseguimento dei negoziati, contro il 27,7 % nel resto dei territori palestinesi – ma questo dato non deve sorprendere. Nelle condizioni durissime in cui si trovano, gli abitanti di Gaza si aggrappano a qualsiasi speranza. Da parte sua l’opinione pubblica israeliana si mostra indifferente verso l’andamento delle trattative ma appoggia la linea del governo di destra guidato da Benyamin Netanyahu volta a negare ai palestinesi uno Stato sovrano e a continuare la colonizzazione dei Territori occupati.
Eppure, anche di fronte a un quadro tanto chiaro, gli Stati Uniti e l’Unione Europea spingono con forza per arrivare a quell’accordo “di pace” che in 20 anni di trattative, anche in periodi in apparenza più favorevoli, non è stato raggiunto. In verità le pressioni le fanno quasi sui palestinesi, la parte più debole, quella che non può aspettare all’infinito la realizzazione di diritti che, è bene ricordarlo, sono sanciti dalle risoluzioni delle Nazioni Unite. L’Europa offre soldi in cambio della firma da parte di israeliani e palestinesi di un accordo, qualsiasi accordo. «L’Unione Europea fornirà un pacchetto di sostegno politico, economico e alla sicurezza a entrambe le parti, israeliana e palestinese, se saranno in grado di finalizzare la pace», hanno scritto i ministri degli esteri dell’Ue nel comunicato che hanno emesso due giorni fa. Bruxelles è pronta a garantire a Israele e al futuro Stato di Palestina una “Partnership Privilegiata Speciale”, ossia l’ingresso facilitato nel mercato europeo, rapporti speciali nella cultura culturale e nelle scienze, investimenti dei Paesi europei. Ai palestinesi la proposta certo non dispiace ma Netanyahu difficilmente si lascerà incantare dalle sirene europee.
Da parte loro gli Stati Uniti non solo hanno presentato un piano di sicurezza per la Cisgiordania che include gran parte delle condizioni poste da Netanyahu, ma, a quanto pare, hanno in via definitiva anche accettato la posizione di Israele che qualsiasi accordo di pace dovrà includere il riconoscimento di Israele come Stato ebraico. E’ un punto critico questo. Tel Aviv, che non ha fatto questa richiesta ai due Paesi arabi con i quali ha firmato trattati di pace (Egitto e Giordania), sostiene che i palestinesi devono riconoscere ufficialmente il carattere ebraico dello Stato di Israele. Il presidente dell’Olp e dell’Anp Abu Mazen, lo esclude e ripete che spetta a Israele “definirsi”. In realtà è in gioco il diritto al ritorno dei profughi palestinesi e dei loro discendenti (5 milioni sparsi nel mondo arabo) ai centri abitati d’origine (in territorio israeliano) e, teme qualcuno, anche di una parte dei palestinesi con cittadinanza israeliana che potrebbe vedersi inclusa in uno scambio territoriale tra Israele-Stato del popolo ebraico e il futuro Stato di Palestina.
L’ultimo incontro a Ramallah tra John Kerry e Abu Mazen si è svolto in un’atmosfera molto difficile anche se poi il segretario di stato Usa ha riferito che i negoziati «hanno fatto dei passi in avanti» verso il possibile accordo di aprile. In realtà Kerry non punta all’accordo definitivo ma a un “accordo quadro” su tutte le principali questioni principali: sicurezza, il futuro di Gerusalemme e il destino dei rifugiati. Per poi lasciare a negoziati futuri l’intesa finale, magari tra 10 o 20 anni. Una prospettiva, che almeno sino ad oggi, Abu Mazen ha respinto chiedendo una soluzione definitiva subito e la fine dell’occupazione militare.