Porto di Palermo, molo dei quattro venti, le nove del mattino. La nave “Etna” della Marina Militare inizia le operazioni di attracco; sulla banchina mille voci si uniscono in un unico suono, confuso. Medici, soccorritori e poliziotti indossano le mascherine, tutti sanno cosa fare, dove andare. Come fosse ormai un’abitudine. Ha inizio una processione di corpi in precario equilibrio, visi stravolti dalla fatica del lungo viaggio, madri che potrebbero essere le nostre, si guardano attorno spaesate, la paura del prima si mescola alla paura del dopo. Un’unica consapevolezza, essere sopravvissuti.

Sono quasi tutti a piedi nudi, chiedono dell’acqua, una donna anziana sviene sulla scaletta, prontamente soccorsa dai volontari della Croce Rossa, regala loro un mezzo sorriso, li abbraccia e ringrazia Allah aprendo le mani in un gesto deciso rivolto al cielo. Subito dopo i primi accertamenti medici, molti di loro salgono sui bus messi a disposizione dal comune di Palermo e portati nei centri di accoglienza allestiti nelle scuole in disuso o nelle parrocchie.

Fuori, la città è ancora addormentata, le strade semi-deserte, sembra di essere in una bolla, fuori da ogni realtà, l’impatto è sconvolgente, migliaia di pensieri si agitano nella mente ed è impossibile, fissandoli negli occhi, mantenere un certo distacco, rimanere freddi davanti a questa tragedia che ogni giorno si ripete sulle coste siciliane. Se c’è una cosa che possiamo fare, è documentare il più possibile il gesto eroico di questa gente che con grande tenacia e determinazione insegue un sogno.

Dalla Costa d’Avorio al Mali, dalla Guinea al Ghana partono cercando la salvezza, dalle guerre, dalle carestie, dalle sevizie. Affrontano, stipati nei camion di chi specula sulla speranza, inimmaginabili sofferenze. Molti non arrivano nemmeno a salpare, muoiono nel deserto, lì vengono sepolti. Un mucchio di ossa senza nome e senza storia.

Sono sbarcati quasi ottocento migranti, sopravvissuti al naufragio di ieri, a poche miglia dalle coste Libiche, fra loro anche chi non si è salvato. Quarantuno i dispersi, Il Mar Mediterraneo è un cimitero senza fine, di tanto in tanto restituisce qualche corpo che va ad arenarsi sugli scogli.

Dalla poppa della nave i marinai calano sul molo una scialuppa di salvataggio contenente i corpi dei dieci migranti, chiusi nei sacchi bianchi. Nove donne e un uomo. Fra le lacrime e le urla strazianti dei familiari, le bare vengono sigillate, caricate sulle macchine delle onoranze funebri e portate al cimitero. Un lungo e silenzioso corteo di sguardi le accompagna fino all’uscita, qualcuno prega, altri hanno sguardi persi, perplessi.

 

Una nuova tragedia che tocca tutti, presenti e non, che non può e non deve assolutamente lasciare indifferenti, immobili. Purtroppo non possiamo più contare solo sulle nostre forze, le risorse sono al termine, i centri al collasso, servono risposte chiare e misure adeguate per far fronte a questa emergenza che ogni giorno di più assume proporzioni enormi.

 

Chi può, ha il dovere di fare qualcosa. L’Europa sta a guardare, sempre più stretta nella sua auto-referenzialità scaricando tutto il peso sull’Italia che a sua volta investe la Sicilia di ogni responsabilità come fosse un problema locale, un mero fenomeno di costume. Dall’una all’altra sponda del continente rimbalzano le accuse e le minacce, nel frattempo però, corriamo il rischio che ci si abitui a tutto questo, che vengano meno parole come rabbia e indignazione o che addirittura ci si arrenda gettando definitivamente la spugna. C’è bisogno oggi più che mai, di tornare ad essere umani.