Una ragazza alle prese con una figlia appena nata si appassiona al passato della sua terra e decide di lasciare la bambina a sua madre, alla ricerca della verità. Siamo nella Palermo degli anni Settanta e la ragazza racconta cosa è successo dopo. Una donna rientra nella casa di sua madre, a dieci anni dalla sua scomparsa, e trova abbandonato nel cassetto di un vecchio scrittoio un registratore. Siamo nella Palermo degli anni duemila e la donna racconta cosa è successo prima.
Come voci in balìa del vento (Iacobelli editore, pp. 224, euro 13) ha almeno due inizi e due fini, ma la donna in questione è sempre Gisella Modica, attivista, femminista, autrice del volume in cui racchiude una parte importante di sé. «Si fa storia quando si dà senso a ciò che si vive», scrive Maria Milagros Rivera Garretas. Ecco, il memoir di Gisella Modica è forse prima di ogni altra cosa un libro sulle asperità che comporta il voler raccontare una storia vera, tradurre in parole l’esperienza vissuta e trovarle una forma. Perché se c’è una cosa che una forma non ce l’ha quella è la vita, Modica lo sa bene, e in questa raccolta di frammenti fa una scelta precisa: invece che la narrazione di una storia, ci consegna il diario di una scrittura.
Un viaggio nel tempo tra la nascita di una figlia e la morte di una madre – tra la morte di una madre e il ritrovamento di una figlia – dove il vero protagonista è un registratore a nastro che è chiamato a incarnare il filo che ricuce, un filo in cui si può anche inciampare. Al centro, la Sicilia del dopoguerra, la lotta contadina per l’occupazione delle terre incolte e la ripartizione dei raccolti.
Che ruolo hanno avuto le donne in tutto questo? Modica inizia a chiederselo in mezzo al fumo delle sigarette di un raduno comunista. Ha appena partorito, ma la domanda le punge più di quello straniamento. E non trovando informazioni nei documenti d’archivio la domanda si fa ingombrante, invade tutto. Per questo Modica decide di partire, prende il registratore, un’agenda, e va a cercare la risposta nell’entroterra palermitano. Piana degli Albanesi, Prizzi, Polizzi, Valledolmo, San Cipirrello, San Giuseppe Jato, Bisaquino, Corleone, Castellana. È un itinerario attraverso i luoghi – crepe e ciuffi d’erba, campagne e caseggiati seccati dal sole – quello in cui l’autrice s’inoltra, un percorso a ritroso in una parte significativa della storia italiana, della questione meridionale. La riforma agraria seguita agli anni delle grandi guerre, la fame dei contadini e la ribellione per la mancata attuazione della legge Gullo che prevedeva una redistribuzione più equa, la politica come ancora di salvezza alternativa e a volte persino contigua alla religione, l’autodeterminazione delle donne prima del femminismo.
C’è sempre un’anziana pronta a lasciar entrare la ragazza con il registratore, sedersi a un tavolo, puntellare il nutrimento del racconto di gesti burberi e severi ammonimenti. «La vita della rivoluzionaria» dice Antonietta, la prima a indossare i pantaloni nel suo paese da ragazza «è andare dove c’è bisogno, buttare semi anche dove non c’è niente. Ma non basta. Bisogna stare attente a convincere prima se stesse per poi convincere gli altri». Eccole le voci in balia del vento di cui l’autrice custodirà per sempre l’eco. Sono voci che lungo quarant’anni di esistenza si trasformeranno, mescolandosi ai deliri e ai sogni e che solo a un certo punto si faranno pronte a diventare racconti. Dieci, raccolti nell’ultimo capitolo, dove ogni storia ha la sua forma che sa lasciarla andare.