Il giorno dopo la scena muta della Procura generale egiziana nella videoconferenza con gli inquirenti di Piazzale Clodio, la Procura di Roma procede con le instancabili indagini che conduce, in solitaria, sull’uccisione di Giulio Regeni: altri cinque i membri della National Security, la famigerata agenzia dei servizi segreti egiziani, sono al centro dell’inchiesta in corso.

Agenti di cui gli inquirenti romani conoscono i nomi (spuntati dai tabulati telefonici) e i legami con i cinque iscritti nel registro degli indagati per sequestro e di cui hanno chiesto conto nella rogatoria dell’aprile 2019, senza ottenere risposte.

La totale mancanza di collaborazione da parte egiziana ieri è stata al centro del dibattito politico, fino all’intervento a metà pomeriggio del primo ministro Giuseppe Conte: «Non sono aggiornato sull’incontro tra le due Procure – ha detto – Ovviamente da un incontro non è che ne deriva automaticamente un riposizionamento dell’Italia. Non è che c’è un’automatica e biunivoca corrispondenza tra Procura della Repubblica e Palazzo Chigi».

Parole che fanno eco a quelle del sottosegretario agli Esteri, Manlio di Stefano, che in mattinata affrontava la questione sollevata dalla famiglia Regeni: «Non credo che il ritiro dell’ambasciatore sia la soluzione: è il tuo rappresentante in quel paese, se lo ritiri il dialogo finisce, richiamarlo a Roma bloccherebbe il dialogo. Le pressioni si fanno in mille modi, non certo richiamando l’ambasciatore».

Resta il dubbio sul modo in cui si facciano queste pressioni. La collaborazione di cui parlava Conte in Commissione d’inchiesta, il 18 giugno, doveva essere alla base dei rapporti economici e politici con Il Cairo. Ora ci dice che non c’è corrispondenza.

Della questione abbiamo parlato con Erasmo Palazzotto, deputato di LeU e presidente della Commissione d’inchiesta sulla morte di Regeni.

Che significato dovrebbe attribuire il governo al silenzio della Procura egiziana?

Non mi aspettavo grandi svolte, mi sembra un chiaro segnale di voler continuare sulla strada che l’Egitto ha mantenuto per quattro anni, tentativi di depistaggio e occultamento della verità. E prendere tempo nell’attesa che questa vicenda venisse dimenticata. Purtroppo gli egiziani non hanno fatto i conti con l’esistenza di un’opinione pubblica che sui diritti non è disponibile a mettere una pietra sopra e che attorno allo straordinario coraggio della famiglia Regeni ha costruito il popolo giallo che oggi è un movimento di opinione che lotta per verità e giustizia per Regeni e per affermare i diritti umani e il valore della dignità della vita umana.

La Commissione rivedrà il proprio lavoro sulla base di questi sviluppi?

Avevamo programmato il nostro lavoro senza basarci sull’idea che questo incontro avrebbe rappresentato una svolta. Non abbiamo cambiato il nostro programma. Oggi abbiamo avuto un altro ufficio di presidenza, in cui all’unanimità abbiamo preso atto dell’esito dell’incontro e confermato il programma di indagini che in questo momento si occupa delle responsabilità politiche, o meglio, del modo in cui i rapporti diplomatici e politici tra Italia ed Egitto hanno influito o ostacolato il processo di ricerca della verità. Una fase che si è aperta con l’audizione di Conte e proseguirà con l’audizione di tutti i presidenti del consiglio succedutisi dal 2016 a oggi e tutti i ministri dei rispettivi governo che si sono occupati del caso Regeni e dei rapporti con l’Egitto. Quindi Di Maio Guerini, Moavero Milanesi, Salvini, Alfano, Renzi, Gentiloni. Abbiamo deciso di evadere questo filone previsto fin dall’inizio e che vorremmo esaurire il prima possibile.

La famiglia Regeni chiede il ritiro dell’ambasciatore. È una possibilità? Se no, chi frena?

Non credo ci siano forze politiche particolari che non vogliono il ritiro, ci sono posizioni articolate dentro tutte le forze politiche. Fa bene la famiglia a rivendicare dal governo una posizione forte nei confronti del governo egiziano anche solo per tutelare la loro dignità e quella del nostro paese. Di fronte a un atteggiamento di questo tipo e ai continui tentativi di depistaggio non si può continuare a far finta di niente. Che sia il ritiro dell’ambasciatore o altre forme di pressioni diplomatiche, è una valutazione che a questo punto il governo è costretto a fare. Il tema ora è stabilire un limite, un punto oltre il quale non possiamo andare e che secondo me potrebbe già essere stato superato. Non ho ancora tutti gli elementi, non siamo al punto delle indagini che ci permette di affermare con certezza molte cose. Ma dal lavoro che abbiamo fatto e dalla valutazione politica, pare che i segnali che arrivano da parte egiziana sono inequivocabili. Bisognerebbe prenderne atto e capire come cambiare questa posizione dell’Egitto, magari anche agendo sul piano europeo, per chiedere solidarietà.

È anche vero che chiedere un intervento dell’Europa, sicuramente necessario, a fronte di ampi rapporti economici e militari, sembra ipocrita.

Il governo sarà obbligato a assumere una posizione più netta, non può far finta di niente. È vero che non è un incontro conclusivo ma se queste sono le premesse non c’è da attendersi molto dal futuro. Anche se si volesse far funzionare questo tentativo di cooperazione giudiziaria, senza una presa di posizione di una certa intensità è difficile che qualcosa cambi. Nel prossimo incontro è pensabile che l’Egitto tenti ancora di allungare i tempi. Si sono presentati dopo 14 mesi senza nessuna risposta alla rogatoria.

L’Egitto non è cambiato dal 2016, è una brutale macchina repressiva. È normale che l’Italia, oltre al caso Regeni, abbia con Il Cairo normali rapporti?

Questa è una valutazione politica che non attiene direttamente al lavoro della Commissione. Sicuramente il contesto in cui è avvenuto l’omicidio di Giulio Regeni è attinente. Se dovessi fare un bilancio dei nostri lavori, direi che il quadro in Egitto dal 2016 si è ulteriormente deteriorato. Il tema più grande del rispetto dei valori universali di libertà e democrazia riguarda non solo i rapporti con diversi paesi ma in generale il complesso della politica estera italiana ed europea. Credo sia una riflessione che vada fatta alla luce del deteriorarsi del quadro dei diritti umani in tutto il Mediterraneo. Se invece di affermare un’egemonia economico-militare sul Mediterraneo, affermassimo un’egemonia culturale che faccia di Italia ed Europa una forza che difende i valori alla base delle nostre democrazie, sarebbe la scelta più lungimirante.

Questo tipo di dibattito è presente nel nostro governo?

Andrebbe chiesto a chi è al governo, io sono impegnato a farlo vivere nel parlamento.

Lei è parlamentare di una forza politica che è parte della coalizione di governo.

A partire dalla Libia, dalle questioni migratorie, dall’export di armamenti, c’è un problema diritti umani. O puntiamo a rafforzare i diritti umani nel Mediterraneo e nel mondo facendone una mission in politica estera, o saremo tra quelli che contribuiscono al tramonto dei diritti umani. E questo ridurrà lo spazio dei diritti e della democrazia anche nella nostra società. Se tutto si deteriora intorno a noi, anche la nostra società tornerà indietro.