La bomba esplode nel tardo pomeriggio. Nessuno se l’aspettava. Solo Silvio Berlusconi era stato messo al corrente in anticipo della mossa dirompente decisa dal Carroccio: «Nella seconda votazione non voteremo scheda bianca ma Anna Maria Bernini. E’ l’unico modo per impedire l’abbraccio tra Movimento 5 Stelle e Pd». Risposta gelida: «Ne prendo atto».

QUANDO GIORGIO NAPOLITANO legge le schede, a votazione chiusa, quei voti ci sono davvero. Il nome della vicepresidente del gruppo forzista, sul quale avevano già espresso parere favorevole tutti prima che Forza Italia decidesse di puntare sull’unico nome considerato invotabile dai 5 Stelle, il capogruppo Paolo Romani, risuona 57 volte. I senatori leghisti sono 58 ma Umberto Bossi (il suo portavoce però smentisce) avrebbe sbagliato dimenticandosi la B: «Ernini».

La reazione di Silvio Berlusconi è durissima, tanto da non lasciare quasi spazio alla diplomazia. Quei voti «sono da considerarsi un atto di ostilità a freddo della Lega che da un lato rompe l’unità della coalizione di centrodestra e dall’altro smaschera il progetto per un governo Lega-M5S». Una dichiarazione di guerra che riflette la frase pronunciata da un Cavaliere fuori di sé dopo la telefonata di Matteo Salvini: «Lo sapevamo dall’inizio che avrebbe tradito».

«TRADIMENTO! TRADIMENTO!»: è la parola pronunciata più spesso nel consiglio di guerra che Berlusconi convoca subito dopo aver diramato il comunicato al tritolo. Proprio per costringere Salvini a provare la sua «fedeltà» viene decisa una mossa a modo suo subdola: Forza Italia accetterà di votare qualsiasi senatore azzurro, «a partire da Romani», purché il Carroccio, in cambio, si impegni a non votare alla Camera per il candidato dell’M5S eleggendo invece il leghista Giorgetti. Solo così Salvini dimostrerà di non essere un Giuda.

 

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E’ la stessa logica con la quale lo stato maggiore azzurro aveva deciso di puntare solo su Romani: usare l’elezione dei presidenti delle Camere per far saltare i ponti con M5S e ridimensionare così quel Salvini di cui ora Berlusconi dice apertamente che «si è montato la testa». Ma è anche la logica che ha spinto Salvini verso una mossa la cui valenza dirompente forse non aveva calcolato a fondo neppure lui: impedire che le nomine istituzionali siano usate come viatico per un’intesa tra destra e Pd. La diffidenza reciproca, la competizione per la leadership della coalizione, la distanza tra strategie opposte, una orientata verso M5S, l’altra verso il Pd, sono gli elementi che, miscelati, hanno portato alla spaccatura forse insanabile di ieri.

LA LEGA FA PASSARE ORE prima di replicare alla furiosa nota di palazzo Grazioli. Poi Salvini dichiara: «Vista la disponibilità dei 5 Stelle a sostenere un candidato del centrodestra alla presidenza del Senato, noi ne appoggeremo uno dei 5 Stelle alla Camera. Aspettiamo di conoscere nomi». Solo Giorgetti minimizza ironico rispondendo a Berlusconi: «Esagerato! Gli abbiamo fatto un favore».

Il Cavaliere, su tutte le furie, riunisce lo stato maggiore del suo partito. Convoca Anna Maria Bernini per chiederle di smarcarsi dall’«uso strumentale» che del suo nome sta facendo la Lega e infatti la candidata suo malgrado esce da palazzo Grazioli e poi twitta: «È evidente che sono indisponibile ad essere il candidato di altri senza il sostegno del presidente Berlusconi e del mio partito».

 

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IL VERTICE INTANTO RIPIEGA verso il gioco d’astuzia consistente nel chiedere a Salvini la «prova d’amore» a Montecitorio.

M5S incassa soddisfatto. «Siamo disposti a votare Bernini o un profilo simile», taglia corto Di Maio senza neppure aspettare la riunione del gruppo convocata per questa mattina. «In fondo – spiegano i 5S – abbiamo detto no a Paolo Romani solo perché condannato». Problema che non si presenta nel caso di Anna Maria Bernini e neppure in quello di Elisabetta Alberti Casellati, il nome sul quale probabilmente meditava di convergere Salvini, come formula di mediazione, una volta convinto il Cavaliere a non irrigidirsi su Romani.

IL PD RESTA IMMOBILE. Renzi si schermisce: «Perché chiedete a me? Parlate con Martina». Poi però parla: «Tocca a loro risolvere. Lo dico da 5 marzo». Eppure, nonostante l’immobilismo, il possibile ruolo del Pd ha pesato nel determinare la precipitazione di ieri. Per ore si sono rincorse voci su una possibile «contromossa» di M5S: votare a favore del capogruppo uscente del Pd Luigi Zanda per mettere la destra alle corde. I numeri sarebbero bastati. Zanda sarebbe stato eletto. Impedire quel possibile passo, del quale non è però mai arrivata conferma, è stata infatti la spiegazione adoperata da Salvini per giustificare la rottura.

Il torneo di oggi si apre al buio. Si vedrà al momento dei voti se rimettere insieme i cocci della destra è possibile. Ma stavolta ci saranno per forza un vincitore e un vinto.