Il Palazzo dei Diamanti di Ferrara fu progettato da Biagio Rossetti nel 1493, terminato nel 1503. Nel 1842 il Comune lo acquistò per ospitare la pinacoteca e l’ateneo civico. L’edificio divenne nel tempo un centro culturale di alto livello. Nel 2017 l’amministrazione comunale ha indetto un concorso di progettazione in due fasi per ampliarlo e risolvere il problema di collegamento tra alcune sue parti, anche con l’inserimento di quei servizi accessori necessari a un museo contemporaneo.

A VINCERE QUEL BANDO è stato il gruppo composto da 3TI, Labics, Elisabetta Fabbri e Vitruvio, ma Vittorio Sgarbi aveva già ordito la macchina della propaganda contro il progetto. La protesta contro l’ampiamento del Palazzo dei Diamanti, con annessa raccolta firme, ha ottenuto il massimo risultato nella bocciatura da parte del Mibac del progetto, senza che nessun cittadino potrà mai conoscerne le ragioni.
Il messaggio mediatico che viene veicolato non è però la critica a un progetto neutro e poco coraggioso, incapace di stabilire una relazione anche forte con l’esistente, bensì si fonda sull’affermazione che l’antico non si deve toccare.
Ferrara, come accadde nel 1998 per il nuovo ingresso agli Uffizi progettato da Arata Isozaki (che forse sarà realizzato nei prossimi anni), rappresenta un caso paradigmatico. Da una parte, si afferma la necessità di usare lo strumento del concorso di progettazione (non così frequente nel panorama italiano), e dall’altra si stabilisce vincitore un gruppo che ha proposto un’architettura anonima e innocua a metà tra il pavido David Chipperfield e il monumentale Marcello Piacentini.

LA QUESTIONE RIGUARDA il rapporto antico-contemporaneo e architettura-committenza. La committenza deve definire regole e condizioni ottimali all’interno delle quali gli architetti possano operare evitando l’adozione di soluzioni timide per assecondare la paura di qualche funzionario nel realizzare una nuova architettura.
Proprio il rapporto tra committente e architetto consentì a Giancarlo De Carlo (Genova 1919-Milano 2010) di risanare Urbino, grazie al committente, il critico-rettore Carlo Bo, attraverso il recupero dei palazzi rinascimentali, così da insediarvi le facoltà universitarie. De Carlo rilesse la storia della città e l’opera di Francesco di Giorgio Martini, introiettandole nella sua idea di architettura. Stabilì nuove relazioni, sia con il contesto stratificato della città sia con il paesaggio circostante, dimostrando che l’architettura moderna poteva dialogare con le pre-esistenze. Una lezione ancora attuale ma in contrasto con il reazionarismo e la conservazione che attanaglia il nostro paese.

QUESTA ATTITUDINE ha prodotto nel tempo molti orrori, come il recupero conservatore del centro storico di Bologna ad opera di Pierluigi Cervellati negli anni 70 e sostenuto dalla sinistra. Infine, non si può dimenticare l’intervento di Sgarbi nella Villa del Casale a Piazza Armerina, che ha distrutto le pensiline di vetro e ferro progettate da Franco Minissi negli anni 50, sostituite da banali pensiline con falde in rame e pilastri in legno, più adatte alle case vernacolari altoatesine che alla Sicilia.