Negli anni Settanta, sulle pagine dell’Espresso, Alberto Statera apostrofava i «palazzinari» – gli esecutori delle palazzine romane – come «una ruvida razza di imprenditori naïf, versata al piagnisteo o all’accomodamento, ma capace di durezze inaudite, dedita alla bustarella e soprattutto alla rapina fondiaria». Non che Roma oggi scorga una diversa classe di imprenditori, meno cinica e più sensibile, ma intorno alla valutazione critica della palazzina, quale particolare tipo edilizio intermedio tra il villino e il fabbricato intensivo, molto è cambiato. Pur nel totale disinteresse, infatti, delle nostre istituzioni culturali, assistiamo a una nuova lettura e considerazione della palazzina che molto deve al lavoro storico di Alfredo Passeri. Già nella sua raccolta del 2013 Palazzine romane, valutazioni economiche e fattibilità del progetto di conservazione (Aracne), la finalità dell’autore era chiara: conoscere per salvare un patrimonio architettonico che per incuria e indifferenza da tempo si trova in uno stato di progressivo degrado.

CONCLUSA, però, la necessaria fase di catalogazione occorreva continuare nell’azione di valorizzazione patrimoniale di questa peculiare e diffusissima tipologia e che può assumere un’importanza strategica per il futuro urbanistico di Roma. La pubblicazione recente degli interventi dei due convegni dedicati al tema della Palazzina romana – all’Accademia di San Luca (2013) e al Dipartimento di Architettura di Roma Tre (2014) – dal titolo La Palazzina romana … irruenta e sbadata (dei Merangoli Editrice, pp. 260, euro 45) offre la possibilità di chiarire bene le ragioni di un interesse non solo di carattere storico e accademico. Innanzitutto c’è da riconoscere che «parlare della Palazzina – come sostiene Vieri Quilici – era ed è come parlare di Roma». Ancor più vero è assimilarla alla «reificazione di un modo di vivere della famiglia romana», come afferma Portoghesi. Elemento transitorio del villino nel Piano Regolatore del Sanjust nel 1909, il nuovo tipo edilizio si trasforma in componente permanente del disegno urbanistico nel Piano Regolatore del 1931, determinando la riconfigurazione delle aree di espansione fuori delle mura dove sorgeranno i quartieri della classe borghese: Parioli, Trieste, Salario, Nomentano. Allineata al filo strada, con distanze fisse dai confini, altezze ridotte a tre o quattro piani e fronti libere, la palazzina risulta, dal punto di vista costruttivo, una tipologia semplice ed economica.

DALL’INCUNABOLO della palazzina «Nebbiosi» su Lungotevere di Giuseppe Capponi, a quelle tra gli anni Venti e Quaranta di Piacenti, Aschieri, Moretti, Busiri Vici, Luccichenti, Ridolfi con Frank o di Libera a Ostia, che rappresentano l’autonoma interpretazione degli etimi della modernità, si giunge alle prove del secondo dopoguerra con gli esempi di Perugini, Aymonino con De Rossi, Fiorentino, Quaroni.
Non c’è stato architetto operante a Roma che non si sia cimentato con il tema della palazzina di là degli «anatemi» di Antonio Cederna che nell’invenzione della pervasiva tipologia edilizia ravvisava solo lo strumento della rapace speculazione immobiliare. Se più coerentemente, si fosse letta l’accondiscendenza degli architetti appena sopra elencati non come un tradimento alla loro pretesa aspirazione di essere considerati degli innovatori e sperimentatori, le sorti della palazzina romana, forse, sarebbero state diverse. Ci saremmo risparmiati interi quartieri di edilizia popolare che non sappiamo oggi come recuperare, estranei alla città, o per meglio dire da quella civile urbanità che ancora un’ibrida invenzione architettonica ci rappresenta.