La nascita di un bambino e la scelta del nome da dargli mettono in moto energie che hanno radici profonde, se poi il nonno del bambino chiede che sia dato il proprio nome e quel nonno è Gregorio Licudis, discendente di un principe greco, la questione si complica. La storia messa in campo dallo scrittore veneziano Enrico Palandri con il romanzo L’inventore di se stesso (Bompiani, pp. 156, € 15,00) insiste su temi cari all’autore e orchestra con abilità una vicenda di portata plurisecolare sullo sfondo di un’Europa ricca di fermenti. La storia ha il proprio punto di fuga nella fiducia verso un futuro dove la libertà di movimento, di pensiero e di commerci abbia la meglio sulle paure.
Il protagonista è Gregorio Licudis, anziano e coltissimo i cui nobili ascendenti comprendono principi, ammiragli e ministri. Tra essi spiccano il progenitore Gregorio, primo ministro dell’imperatore bizantino Basilio, e Gianrico, architetto e consigliere dello zar Pietro il Grande, il fondatore di Pietroburgo. Con le vantate nobili origini della famiglia, corroborate dalla voce del Crollalanza (riportata testualmente da Palandri), deve fare i conti il figlio di Gregorio, il narratore, che dirige un’azienda fondata dal suocero e fa soldi commerciando vini pregiati. Suo figlio, il bambino cui viene imposto il nome di Pietro, mostrerà ben presto di aver ereditato i talenti di due famiglie dagli stili di vita del tutto opposti, quasi a dire che nelle nuove generazioni possono confluire fruttuosamente qualità diversissime, ovvero l’amore per la cultura, l’erudizione e i nobili ideali, e insieme un solido senso pratico.
La storia si snoda in tre momenti: la nascita del bambino, la rievocazione dell’illustre passato dei Licudis e il rapporto con la società attuale. Il momento più critico è rappresentato dall’irruzione di Alexandra, la badante proveniente dall’ex Unione Sovietica, che riesce a farsi sposare dall’anziano Gregorio e subito dopo chiede il divorzio.
I fili che si alternano e si intrecciano nel corso della narrazione alludono al peso rappresentato dalla famiglia e agli oneri che ne conseguono, ma quello della famiglia è un discorso metaforico che chiama alla riflessione sulla capacità di superare i confini delle certezze acquisite e di confrontarsi con ciò che sta al di fuori. In questa prospettiva l’ottica puramente familiare svela la propria insufficienza, oggi come ieri. Per cogliere questa trasformazione e rappresentarla in tutte le sue risonanze e in tutte le sue potenzialità, Palandri gioca la carta di Venezia, la potenza politica e commerciale che cominciò a morire quando si precluse la possibilità di abbracciare nuovi orizzonti.
Mentre nel primo e nel terzo momento l’attenzione è focalizzata sui personaggi, nella parte centrale del romanzo – la più ricca di inserti di natura riflessiva – sono i luoghi a dominare la scena, e i luoghi sono Bisanzio, Pietroburgo, Astrakhan, ma soprattutto Venezia, la città di marmi, ori e cupole, dove «la mescolanza di cultura greca e latina» era realtà quotidiana e le cui costruzioni risultavano stupefacenti «come oggi i grattacieli americani o cinesi». La finzione di avere, tra gli antenati, consiglieri degli imperatori di Bisanzio o dello zar Pietro il Grande consente a Palandri di disegnare scorci della storia d’Europa, i rapporti difficili con i cristiani ortodossi, la minaccia dei Turchi, la costruzione di imponenti opere idrauliche, la difficoltà di portare a buon fine audaci trattative diplomatiche. Il monito è di tenere memoria di ciò che è stato il nostro passato ma guardare e operare nel presente: «Il mondo che si dispiega come una grande avventura quando si esce dal pezzettino di certezze in cui si è cresciuti, la consapevolezza dei tanti altri da noi che popolano il pianeta, delle loro qualità e differenze». Così l’arrivo della spavalda Alexandra e il suo matrimonio con Gregorio acquistano il peso di un colpo di scena di natura allegorica. Alexandra è la straniera che si insinua nella casa di un ‘principe’ che perde da quel momento in poi tutta l’aura che lo aveva contraddistinto. Varcare il confine, per lei come per chiunque, implica una sorta di rinascita e apre spazi inediti nei quali reinventarsi è possibile. Come aveva sperimentato l’antenato Gianrico, quando aveva abbandonato la Russia per Venezia.
Il bambino assume pertanto il ruolo di rivelatore e il suo arrivo porta allo scoperto le ambiguità del passato. Ma il percorso di maturazione compiuto dal narratore anche grazie alla paternità, avviene perché l’uomo agisce con coraggio e con pietà nei confronti delle situazioni difficili che gli si presentano e pagandone il prezzo senza discussioni e senza velleitarismi. Egli costruisce la propria identità facendo rinascere genitore (e progenitori) in se stesso, e accettandone per ciò stesso le verità e le menzogne, gli stemmi araldici e le millanterie. La pantegana che si introduce nella sua casa è portatrice di un messaggio allegorico inequivocabile: il basso e l’alto coabitano. E l’immagine di copertina non potrebbe essere più esplicita: l’illustratrice ha disegnato una figura da cui si dipartono fili come radici di un albero che si originano tanto dai piedi quanto dalla testa. È infatti un discorso sulle radici quello che l’autore conduce viaggiando tra i secoli e tra le più splendide corti d’Europa, per scoprire alla fine che ogni nobiltà nasconde lati d’ombra insospettati e comportamenti poco onorevoli.
«La maturità non è conformismo, ma il dialogo delle epoche in noi. Il negoziato tra oppressi e oppressori. Capire come tra quello che eravamo e quello che diventiamo, soggettivamente e tutti insieme, le frontiere sono continuamente ridisegnate … Non c’è una soluzione, solo una crescente, difficile consapevolezza».
Di fatto il romanzo pone alla riflessione del lettore questioni di estrema attualità e traccia una triangolazione tra un bambino, un adulto e un vecchio, per individuare in essi quel filo che li attraversa e li sostanzia, anche al di là della loro consapevolezza, e che comprende lustri, debolezze e colpe, con i quali è bene imparare a fare i conti.