Quella degli ismailiti è una piccola minoranza nella minoranza sciita del Pakistan. Ma pochi o tanti, poco importa ai gruppi che hanno fatto della guerra agli apostati la loro religione. L’ultimo attentato, 43 morti e 23 feriti, avvenuto a Karachi in pieno giorno dove un commando ha assaltato un autobus carico di fedeli, colpisce la piccola setta presente anche in Afghanistan e, in maggior numero, in India.

Mentre ieri si sono svolti i funerali per la strage di mercoledì, si fanno i conti con le rivendicazioni che puntano dritte allo Stato islamico. O meglio, al gruppo Jundallah, organizzazione settaria che come altre prende da sempre di mira chi devia dalla retta via e che, fino a novembre scorso, faceva parte del Ttp (Tehreek Taleban Pakistan), l’ombrello talebano pachistano in odore di scissione da mesi e dal quale molti gruppi si staccano per aderire al progetto dello Stato islamico che prevede un Khorasan (area che nella testa di Al Bagdadi comprende Afghanistan e Pakistan) affiliato al Grande Califfato. Jundallah (soldati di Allah) è di formazione abbastanza recente e si è fatto notare per diverse azioni con risonanza anche all’estero: quella nel giugno 2013 nel Gilgit-Baltistan dove fa strage di un gruppo di alpinisti di diverse nazionalità. A settembre due kamikaze fanno invece saltare la chiesa di Ognissanti a Peshawar: 127 morti e 250 feriti.

A ottobre 2014 se la prendono con un jihadista «moderato» – maulana Fazlur Rahman della Jamiat Ulema-e-Islam – che riescono solo a ferire. Dopo l’adesione all’Is (di cui forse c’è già un’avvisaglia nell’attentato a un musulmano «deviato» come Fazlur Rahman), attaccano la parata dell’esercito pachistano al posto di frontiera di Wagah con l’India: 60 morti. Da gruppo anti sciita, sono passati a uccidere turisti, cristiani e soldati pachistani, una deriva che li avvicina all’Is. Ultimo colpo a gennaio:49 morti in una moschea sciita. Il governo però getta acqua sul fuoco.

Secondo il ministero degli Esteri la paternità dell’attentato contro il bus è dubbia: prima un biglietto lasciato sul posto dal commando poi l’annuncio Twitter dell’Is. Infine una telefonata di Jundallah e poi una rivendicazione del Ttp. Soprattutto, sottolinea la diplomazia pachistana, è presto per dire se la mano è di Daesh (Isis). A metà marzo, il ministro degli Esteri Nisar aveva addirittura escluso la sua presenza in Pakistan.

Presenza che forse non è molto forte ma che evidentemente esiste, seppur in un quadro assai frammentato e in competizione come dimostrano le diverse rivendicazioni.

La preoccupazione per la china che stanno prendendo le cose (ogni giorno in Pakistan si registrano omicidi politici mirati, attentati kamikaze e assalti a soldati) è palpabile. Lo si capisce dalle parole che Nawaz Sharif, accompagnato dal rappresentante delle forze armate Raheel Sharif, ha appena pronunciato nella sua visita di Stato a Kabul: «Chi è nemico dell’Afghanistan non può essere amico del Pakistan». Al di là delle frasi di convenienza tra due paesi che si sono sempre guardati in cagnesco, il Pakistan sembra proprio voler girare pagina anche perché, con una ripicca raffinata, l’Afghanistan ha tollerato nel suo territorio la presenza di combattenti talebani pachistani (tra cui mullah Fazlullah, il capo del Ttp).

Il disaccordo tra i due Paesi non ha fatto che favorire guerriglieri, terroristi e jihadisti e ora, più in Pakistan che in Afghanistan, la faccenda sta diventando spinosa e sul problema sicurezza il governo di Nawaz sta rischiando. L’accordo tra i due paesi (sia di intelligence sia sui flussi di frontiera) complicherebbe la vita ai talebani di entrambi i Paesi e ad altri gruppi di varia affiliazione (Al Qaeda, Is) e provenienza (come il Movimento islamico dell’Uzbekistan, lui pure passato a Daesh).