Skype e WhatsApp come l’ossigeno. Difficile non accorgersene, nell’era digitale, quando da un momento all’altro non ci sono più. Difficile non protestare.

Eppure il 3 ottobre scorso, il governo del Sindh, una delle quattro province del Pakistan, ha deciso un blocco dei principali software di messaggistica online. Durante una conferenza stampa il ministro dell’informazione del Sindh, Sarjeel Memon, ha spiegato i termini dell’oscuramento, che per ora sarà di soli tre mesi: le reti a cui si appoggiano i servizi di messaggistica come Skype, WhatsApp e Viber, un concorrente di Skype da 200 milioni di utenti, saranno bloccate perché usate dai terroristi.

Negli ultimi tempi, ha spiegato il ministro, le formazioni di stampo islamista starebbero abbandonando i cellulari di vecchia generazione in favore degli smartphone, utilizzando i social media che si appoggiano a reti 3G e 4G.

Il blocco ha insospettito molti utenti delle app e non sono pochi coloro che oggi in Sindh, in particolare nella capitale Karachi – città portuale e centro finanziario del paese, una metropoli da più di 9 milioni di abitanti – lamentano che il loro paese, invece di andare avanti, stia scivolando nell’arretratezza. A migliaia hanno riversato la propria rabbia in tweet e commenti sulla rete. «Questo succede quando un paese ha toccato il fondo. Bloccati WhatsApp, Skype e poi cosa ancora? L’ossigeno?», ha scritto un utente su Twitter, dove gli hashtag #Viber, #Skype, #SharjeelMemon e #WhatsApp hanno impazzato per ore.

A difendere la scelta del governo del Sindh, di segno Pakistan People Party (PPP), si è levato niente meno che il leader del partito che fu di Benazir Bhutto: il figlio Bilawal Bhutto-Zardari. E lo ha fatto proprio su Twitter (https://twitter.com/BBhuttoZardari ), scrivendo, secondo quanto riporta il quotidiano Dawn, «Cari burger – appellativo che in urdu è riservato agli amanti dell’Occidente – spiacenti per WhatsApp, Skype e Viber. Scusate se stiamo cercando di prendere terroristi e salvare vite. Sms per i prossimi tre mesi».
Parole che più che di scusa suonano cariche di ironia.

Non è infatti la prima volta che il governo della provincia blocca dei social media. L’anno scorso era toccato a Youtube, mentre quest’anno si era già assistito a un giro di vite, giustificato sempre dalla lotta al terrorismo, alle comunicazioni cellulari. Risultato: da anni il Pakistan è all’ultimo posto nel rank di Freedom House per la libertà del web. Per questi motivi in molti hanno attaccato le parole del rampollo della famiglia Bhutto-Zardari.

Le conseguenze dirette della decisione del governo del Sindh si fanno sentire soprattutto su università e piccole e medie imprese, spiegano ancora a Dawn i responsabili della Pakistan Software Houses Association, la P@sha: «Queste app spesso diventano essenziali per riunioni e conferenze tra diverse città in Pakistan, in cui le persone non possono per le ragioni più diverse partecipare direttamente».

Anche alcuni esperti di sicurezza hanno criticato la scelta del governo, definita da molti «incomprensibile» anche perché «il blocco è facilmente aggirabile». Se in gioco ci fosse davvero la sicurezza, sostiene qualcuno, bisognerebbe rinforzare l’intero sistema di sicurezza della provincia e non solo usare il pugno di ferro sulle comunicazioni.

«Quello che il governo ha fatto va contro i diritti umani» – protesta dalle colonne di Dawn Jehan Ara, presidente di P@sha. «La tecnologia è ormai senza confini. E il nostro governo invece di sostenerne lo sviluppo, lo limita. E noi siamo stati zitti per troppo tempo». In Sindh, la rivoluzione digitale lascia ora spazio alla rivolta digitale.