Essere architetto paesaggista e al tempo stesso agricoltrice custode di biodiversità significa incarnare l’idea del paesaggio come bene comune. Isotta Cortesi, organizzatrice della II conferenza internazionale «Il paesaggio al centro» (oggi e domani a Napoli), insegna architettura del paesaggio all’università Federico II di Napoli. Ha trasformato in boschi terreni stremati dalle coltivazioni intensive nella Pianura padana, mettendo a dimora e custodendo quasi 10.000 piante. Sottolinea che «il paesaggio è di tutti, un patrimonio comune intergenerazionale che si tramanda».

Qual è una definizione di paesaggio per i non addetti ai lavori?

E’ lo spazio della relazione tra l’essere umano, la sua opera e la natura. Nutre le identità delle popolazioni e contribuisce al loro benessere fisico e psicologico. Entità viva e mutevole nel tempo, implica processi di trasformazione endogeni – specifici degli ecosistemi -, ed esogeni – indotti prevalentemente dagli esseri umani. E’ del resto la sintesi di natura e cultura. Prevede un’integrazione dei saperi. Tutto, alla fine, è paesaggio: gli spazi urbani, quelli delle coltivazioni agricole, i territori degradati (discariche, cave estrattive, infrastrutture, certe periferie…), quelli di eccezionale pregio; e quelli dello spazio del quotidiano.

Chi si occupa di paesaggio, e come?

Innanzitutto il paesaggista, che si forma in Italia nelle scuole di Architettura da trent’anni ma viene riconosciuto professionalmente da solo quindici. Ma il paesaggio messo al centro interpella tutti. Nella costruzione della cultura colloco i filosofi, gli storici, gli architetti e gli archeologi, e ovviamente gli educatori. Nella pratica di cura dei luoghi trovo gli ecologi, i botanici, gli agronomi e i forestali, i biologi conservazionisti, i geologi, i climatologi e gli agricoltori. Sul lato creativo trovo gli artisti. Nella parte di cura gestionale certamente sono fondamentali gli economisti, i politici e gli enti pubblici e privati: insomma tutti gli organismi, individui o collettività, che hanno una relazione con il paesaggio. Ci si deve chiedere allora se le loro azioni corrispondano alle loro responsabilità. Un impegno civile centrale, poi, è quello che spetta ai cittadini.

Quelli italiani ad esempio?

La popolazione entra in gioco in ogni fase e si trova anche a supplire alle manchevolezze degli amministratori. La tutela del paesaggio è uno dei 12 principi fondamentali della nostra nazione, sancito dall’art. 9 della Costituzione. Ma è con la ratifica della Convenzione Europea in legge italiana (l. 14/2006), che si chiamano le popolazioni non solo alla salvaguardia, ma anche alla gestione e alla visione progettuale del paesaggio, in un processo che promuove la cittadinanza attiva nel garantire i diritti e le responsabilità sul paesaggio, inteso come bene comune. Parlare di progetto di paesaggio oggi vuol dire parlare di impegno e responsabilità, libertà e comunità.

Il 12 ottobre si tiene a Milano l’assemblea nazionale del Forum «Salviamo il paesaggio», già campagna «Stop al consumo di territorio», il cui traguardo è l’approvazione di una norma nazionale per l’arresto del consumo di suolo e per il riuso dei suoli urbanizzati. In che modo il lavoro dei paesaggisti aiuta questo obiettivo?

Un’illusoria crescita economica ha depauperato la cultura della cura dei luoghi, esaurendo il paesaggio e rendendo alla fine più povero il nostro paese. La pianificazione urbanistica ha ignorato questa trasformazione o, ancor peggio, l’ha legittimata con la complicità della gestione politica locale e nazionale, coadiuvata dalle leggi di uno Stato che per facilitare la ripresa economica ha consentito il saccheggio dei suoli, svenduti dalle municipalità bisognose di risorse. Una condizione riproposta identica in tutto il paese. Ripartire dalla relazione col paesaggio e con i suoi elementi costitutivi è oggi possibile anzi necessario per dare dignità a insediamenti cresciuti indistintamente ovunque nel paesaggio italiano. Così il paesaggio può diventare quell’elemento vitale capace di rigenerare le città, recuperare le terre perdute, inaccessibili e degradate, e ammorbidire la parte indurita e incivile delle nostre città. Il paesaggista sa che deve lavorare per riattivare i processi vitali, per costruire relazioni tra i viventi, per migliorare la salute degli ecosistemi e il benessere delle persone. L’affermarsi del senso di responsabilità rispetto al consumo del suolo e alla tutela della vita apre oggi alla possibilità di guardare al paesaggio e al suo progetto come all’occasione per ricostruire relazioni (urbane e territoriali) riattivando un nuovo e antico rapporto vitale con la natura.

Oltre al ruolo determinante e salvifico degli alberi, qual è l’intreccio fra il paesaggio e la questione climatica, che l’Onu definisce «questione determinante del nostro tempo»?

Le variazioni climatiche e atmosferiche di questi ultimi decenni hanno impatti spesso catastrofici sul paesaggio e sulle popolazioni, costrette a migrazioni di massa per sopravvivere, e sulle vittime di guerre per il controllo delle risorse. I paesaggisti, nel loro lavoro, ripensano gli spazi aperti delle città per rispondere in modo integrato anche alle necessità poste dai cambiamenti climatici. Sperimentiamo sistemi di adattamento e mitigazione che coinvolgono i cittadini, non più vittime ma compartecipi della variazione dello spazio urbano. Se l’essere umano vuole sopravvivere, l’abitare antropocentrico, fondato sulla dimensione prevalente dell’uomo, deve evolvere verso la condizione biocentrica, con la compresenza di tutti esseri viventi.

Il paesaggio è un «capitale naturale», ma come evitare che diventi merce?

L’accesso alle risorse naturali è la condizione per la sopravvivenza degli esseri viventi, ma queste stesse risorse sono per alcuni un’occasione di speculazione e profitto. L’umanità deve vedersi garantito il diritto di accesso all’acqua potabile, al suolo fertile e all’aria pulita. Ma siamo a un punto nel quale noi stessi pregiudichiamo la nostra sopravvivenza. La conservazione della natura deve diventare argomento fondante il nuovo modo di esistere. Il pensiero del collettivo deve prevalere; per troppi decenni l’obiettivo prevalente è stato il massimo profitto. Tutto è collegato: le risorse come capitale naturale sono di tutti, valicano i confini nazionali e continentali – pensiamo ai ghiacciai artici e antartici e alla foresta amazzonica.

Come si intreccia il paesaggio, bene comune per definizione, con altri beni comuni, con i diritti sociali, e con la biodiversità, base della sopravvivenza?

Per parlare dell’Italia voglio accennare al difficile riconoscimento a patrimonio culturale Unesco delle colline del Prosecco, ora un luogo da tutelare e identificare. Il riconoscimento è dovuto alla straordinaria opera dell’uomo nel coltivare la terra. Questo però ha dovuto confrontarsi con l’impoverimento del valore ecologico dell’ecosistema: la produzione agricola a monocultura, infatti, ha implicazioni drammatiche sull’inquinamento delle acque di falda, dell’aria e del suolo, con la nebulizzazione di prodotti chimici che ha determinato una fortissima riduzione di biodiversità. Quindi il valore del riconoscimento culturale entra in conflitto con il valore reale della vita e della sopravvivenza degli ecosistemi dove l’uomo è minoritario come quantità ma devastante come attore principale. Credo che tutto debba essere reimpostato partendo dalla comprensione dei cicli che ci precedono e che ci seguiranno. Si impone un nuovo equilibrio natura-uomo-natura. I beni comuni e pubblici costituiscono il campo maggiore per la messa in opera del progetto di paesaggio attuale.

Come si diffonde la cultura del paesaggio?

Deve conquistare i diversi ambiti della comunicazione: educazione scolastica, formazione tecnica, diffusione dei saperi. E occorre far conoscere anche le esemplari opere costruite.