«I crimini di questa terra colpevole non potranno che essere espiati col sangue». Lo scriveva John Brown nel 1959, solo pochi giorni prima di venire impiccato per omicidio, alto tradimento e aver sobillato una rivolta di schiavi. Ed è proprio Brown il «protagonista» del documentario di Lee Anne Schmitt che dalle sue parole prende il titolo – Purge This Land – e che vedremo in concorso nei prossimi giorni a Filmmaker Festival di Milano (1-10 dicembre). Il crimine da lavare col sangue è quello dello schiavismo, combattuto da John Brown appassionatamente e violentemente, con sanguinose azioni militari .

Il retaggio della schiavitù, lo scontro razziale, vive però ancora nell’oggi, e gli stessi paesaggi degli Stati uniti ne recano le tracce: Schmitt nel suo film-saggio lavora proprio sull’osservazione dei paesaggi e della stratificazione di eventi che essi nascondono – una targa indica dove è stato impiccato lo schiavo ribelle Nat Turner, un luogo ormai celato da una strada a scorrimento veloce – o che al contrario esibiscono, come nella baracca preservata in Virginia dove un tempo venivano rinchiusi gli schiavi fuggitivi in attesa di essere «restituiti» ai loro padroni.

Eleggendo il ribelle Brown a centro della narrativa ci si interroga anche sul rapporto tra uomo e Stato, fra «giusta» ribellione e sedizione, fra l’esistenza di eterne leggi morali e quelle stabilite dalla Nazione.
È una questione che mi interessa molto, riguarda il rapporto, che può essere conflittuale, fra l’azione individuale, una sorta di legge morale e il governo. Mi interessano anche le domande sollevate dall’interpretazione della violenza: quella dello Stato e quella dell’individuo. Non solo le sommosse o i linciaggi, ma anche le violenze sistematiche e quotidiane: una delle cose che mi premeva di più evidenziare è come questo sistema abbia un impatto sulla vita di tutti i giorni delle persone.

leeanne02_preview

Come è nato il progetto del documentario?
Questo è il terzo film in cui tratto il pensiero politico statunitense attraverso il paesaggio, visivo e sonoro. Dopo The Last Buffalo Hunt, su alcuni cacciatori bianchi dello Utah , ho sentito il bisogno di affrontare il tema della razza – una parte fondamentale del pensiero politico americano.

«Purge This Land» affronta questi problemi in un momento in cui la presidenza di Trump rende quanto mai attuale il tema della disobbedienza.
Di recente ho sentito un’intervista a Dee Rees (filmmaker nera,ndr) in cui raccontava di essere cresciuta nel Sud, vicino a persone con la bandiera dei confederati a sventolare dalla finestra, che non permettevano ai loro figli di giocare con lei. Lo stesso è successo al mio compagno, cresciuto in Virginia: questa situazione esiste da sempre. Ma al momento attuale è estremamente visibile – e forse questa visibilità è l’unica cosa buona della fase storica in cui viviamo. Io però ho iniziato a lavorare al film molto prima della presidenza Trump – cominciavo a pensarci già dieci anni fa – dunque questi problemi sono confluiti nella narrativa seguendo la Storia, il «filo logico» degli eventi. Su un piano personale, finire il montaggio del documentario in questi ultimi due anni è stata però un’esperienza molto complicata: nonostante l’indignazione per ciò che accadeva ho lottato per mantenere il focus sulla sistematicità della violenza di razza.

Ha scelto di portare la sua esperienza personale e privata in primo piano.
È una scelta decisa nell’ultima fase del montaggio, e credo sia la componente che più è stata influenzata da quanto stava succedendo mentre il film veniva portato a termine. Nei miei lavori c’è sempre la mia voce, sono tutti personali, ma non come in Purge this Land in cui si fa riferimento diretto alla mia famiglia. Mi sembrava la scelta più onesta possibile: in quanto donna bianca con un compagno african american e un figlio mulatto era giusto sottolineare la situazione dalla quale esprimevo il mio pensiero, la sua complessità e i suoi limiti. Gli spazi domestici, non solo miei, hanno un grande rilievo nel doc: la dimensione privata delle persone nere è importante perché in questo modo non si parla di loro solo in quanto «temi», ma come esseri umani con la loro vita. Sono anche interessata alla famiglia di John Brown, alla quale lui ha chiesto un grande sacrificio (dei suoi 18 figli molti hanno combattuto al suo fianco e gliene sono sopravvissuti solo quattro, ndr). In fase di montaggio mi sono ritrovata con molto materiale sulle case, sui luoghi dove queste persone hanno vissuto, e mi è sembrato disonesto non fare il passo successivo e includere anche la mia casa e la mia posizione al suo interno.

L’approccio alla narrativa e alla storia non segue un ordine cronologico.
In qualunque luogo, le tracce del passato sono visibili anche nel presente. Tutti i paesaggi e i luoghi del film sono stati scelti perché John Brown è stato lì o perché hanno ospitato un’esplosione di violenza razziale. Nelle aree urbane a maggioranza nera – a Detroit come a Cleveland per esempio – sono tutt’ora visibili le tracce di uno schema di pensiero che organizza la città stessa sulla base della subalternità razziale. E questo dà la misura di come sia errata la convinzione che ci sia un movimento in avanti lineare della Storia.