Organizzata su nuove basi associative, la decima edizione della Biennale dell’immagine dal titolo Borderlines Città divise/Città plurali presenta a Chiasso un programma che solo una scorsa superficiale può far credere interessi un genere di fotografia, quella avente oggetto il paesaggio urbano, non solo fin troppo investigato, ma soprattutto raccontato secondo linguaggi che della lezione di alcuni fotografi contemporanei allievi osservanti ne hanno fatto un consumato stereotipo. Il rischio, evitato, era quello di ritrovarci davanti a fotografie di maniera, imitazioni spesso estetizzanti.

AL CONTRARIO, la scelta dei curatori si è orientata verso autori interessanti, con progetti rigorosi sul piano formale e nel contenuto sociale. In definitiva ci si è rivolti lì dove la fotografia ha saputo evidenziare meglio di altri mezzi «la situazione di incertezza – come scrive Antonio Mariotti nella sua introduzione in catalogo – e l’intrico di contraddizioni di cui si è ormai smarrita ogni chiave di lettura razionale».

È IN QUESTA DIREZIONE che gli scatti esposti comunicano il livello di cinismo e le regressive condizioni di vita che nelle città dividono gli uni dagli altri per assecondare, nella nostra società opulenta, i diffusi istinti di difesa e sicurezza, l’alienazione del lavoro quotidiano, il conformismo culturale e altro ancora. Iniziamo il nostro itinerario dalla dogana di Ponte Chiasso dove all’interno di quello che fu il Bar Mascetti, ora trasformato in galleria mantenendo bancone e scaffali vintage, Paola di Bello e Giacomo Bianchetti con sguardo acuto indagano il microcosmo della frontiera italo-svizzera. Nei dittici della fotografa italiana il montaggio di due diversi scatti di edifici collocati da un lato all’altro del confine e accostati rispettando le fughe prospettiche, ci restituiscono una serie di immagini d’effetto dove comanda l’analogia, mentre le differenze si concentrano nei suoi still life, in cui il confronto (economico) è tra le cose che si possono acquistare con cinque franchi o cinque euro, in Ticino e da noi.

Anthony Linck_Untitled (1950s-60s)
Anthony Linck, Untitled (1950-60)

ALTRETTANTO RIFLESSIVO è il lavoro dello svizzero Bianchetti che con video e scatti negli spazi dell’ordinaria quotidianità di alcuni anonimi frontalieri narra il loro andirivieni – lì dove si lavora ma non si vive e viceversa – cogliendo l’alienate condizione del muoversi per necessità disegnandolo sulle pareti dell’ex-bar con un pennarello rosso. Tuttavia è nello Spazio Officina dove incontriamo con il titolo Life in Cities la fotografia di Michael Wolf che più palpabile è resa l’«inumanità della vita urbana moderna». Wim van Sideren, curatore della mostra, ha allestito un’antologia del fotografo tedesco formatosi nel reportage (Stern) e divenuto artista visivo agli inizi del duemila. Già nelle foto della sua tesi di diploma, Bottrop-Ebel (1976), era evidente il suo interesse per la relazione tra spazio fisico e vita delle persone. Il suo occhio transita dalla scala del piccolo villaggio della Ruhr alle metropoli asiatiche cogliendo il cinico disprezzo del capitalismo per la vita degli uomini: dai mastodontici complessi residenziali ridotti a pattern (Architecture of Density, 2013-14) alla minuta scala dei visi schiacciati contro il vetro di anonimi viaggiatori giapponesi addormentati dentro il metro (Tokyo Compression, 2010-13).

PER CAPIRE però le contraffazioni che il linguaggio del moderno in architettura ha subito e che Wolf impietosamente descrive in Asia (Hong Kong, Corner House) occorre visitare la mostra berlin moving still alla Sala Diego Chiesa. Nel guardare le immagini esposte torna alla mente quanto Joseph Roth scrisse a proposito della Kurfürstendamm e che possiamo estendere all’intera capitale tedesca: «la sua terrificante attitudine a rinnovarsi incessantemente contraddice tutte le leggi della natura», pur tuttavia restando «riconoscibile a prescindere». Appare evidente che Berlino negli scatti di Giuseppe Chietera, Roberto Mucchiut, Domenico Scarano, Fabio Tasca, non è più la «città-laboratorio» d’anteguerra: la gentrificazione l’assale come altre metropoli contemporanee, ma sorprende come «immutabile è la sua mutevolezza». La tesi dello scrittore austriaco, tuttavia, è impossibile estenderla ai paesaggi italiani (e ticinesi) fotografati da Filippo Brancoli Pantera alla Galleria ConsArc. Il processo dello sprawl ha contaminato le aree rurali in modo irreversibile anche in luoghi distanti dalla città. Per ritrovare l’originario distacco nel guardare lo spazio urbano che definì un genere – l’inaugurò William Jenkins nel 1975 con la mostra New Topographics: Photographs of a Man-Altered Landscape  (Rochester NY, 1975) – occorre raggiungere a Bruzella la Fondazione Rolla.

ALL’INTERNO DELL’EX-SCUOLA elementare è allestita la mostra American Dream con gli storici scatti di Lewis Baltz, Frank Gohlke, Robert Adams, ai quali si sono aggiunti quelli dei giovani Christopher Morris e Beat Streuli, oltre le foto di un maestro della fotografia di architettura come Ezra Stoller. In altre sedi (anche a Lugano) prosegue l’itinerario della Biennale con l’installazione all’aperto dei ritratti di Angélica Dass e quelli di Oliviero Toscani al m.a.x. museo: in ognuna di queste si conferma quanto la fotografia sia indispensabile per comprendere i conflitti del mondo contemporaneo.