Il Fid 2017, il ventottesimo, si è chiuso, appuntamento al prossimo anno, sul palco insieme ai saluti «di rito», alle giurie, ai premi e ai premiati – nel concorso internazionale Let the summer never come again di Alexandre Koberidze e in quello francese Southern Belle di Nicolas Peduzzi e 7 Veli di Sepideh Farsi – all’allegria e al disappunto, la sodddisfazione di tutta l’equipe festivaliera orchestrata dal direttore artistico Jean-Pierre Rehm per una edizione che è riuscita a vincere anche la scommessa del pubblico. Sale piene, una presenza di giovani – complice il Fid Campus per gli studenti di cinema – ma anche un maggiore radicamento nella città gli ultimi giorni già popolata dai vacanzieri con le saracinesche abbassate di chi è partito.

 
Che festival è stato questo Fid che per chiudere ha scelto il molto bello La Caméra de Claire, uno dei nuovissimi Hong Sang-soo? – allo scorso festival di Cannes in doppietta con Le jour d’après quest’ultimo in concorso. Perché La Camèra de Claire oltre a confermare il rapporto di affinità tra il festival e il regista coreano nouvelle vague a cui lo scorso anno era dedicata la retrospettiva, come suggerisce il titolo – «Caméra» sta infatti per macchina fotografica – sintetizza con perfetta leggerezza il senso del filmare la realtà. Claire – che è Isabelle Huppert, complice pienamente a suo agio del regista – è una fotografa amatoriale che si aggira nelle strade di Cannes durante il festival per catturare immagini di chi attrae il suo sguardo. «Fotografare qualcuno lo cambia per sempre» ripete ai suoi soggetti. La questione è essenziale per un festival del documentario – come vuole il suo nome, Fid – ma non ancorato al genere. E ciò che viene interrogato nei film visti questi giorni è proprio il rapporto tra la realtà e l’immaginario, i suoi fantasmi e le esperienze quotidiane: paesaggi umani e fisici, periferie e foreste, l’umano e l’animale, esperienze private, narrazioni collettive, un mondo che ci sfugge anche se ormai (o forse per questo) si pensa di viverlo «in diretta» ogni giorno.
Da questo paesaggio umano «comune» sono partiti Nicolas Klotz e Elisabeth Perceval che a Calais non erano mai stati come tanti altri anche se quella città nel nord della Francia la conoscono ormai in tutto il mondo; è diventata «The Jungle», la Giungla, baracche e accampamenti in un grande terreno vuoto dove vivevano fino alla distruzione migliaia di migranti in attesa di arrivare un giorno in Inghilterra.

 
È proprio con questa iconografia che i due cineasti si confrontano in L’Heroique Lande – La frontière brule cambiando il segno dell’attualità, della cronaca, del vittimismo in una forma epica del racconto. Le storie che ascoltiamo si somigliano tra loro, sono odissee di violenza, miseria, brutalità, le abbiamo sentite e altre volte e succederà ancora. Non è però questo che i due registi francesi mettono al centro: la loro sfida è costruire a partire da lì un immagine «antagonista» nel quale ciò che appartiene appunto a una sorta di «abitudine» dell’attualità mediatica si trasforma in cinema.

 
Loro o definiscono «un film primitivo», lo hanno girato in un anno e più con una Black Magic cercando nella tecnologia e in una economia del set leggeri un rapporto di prossimità, ma sempre rispettoso, coi luoghi e coi loro abitanti. Le voci di quanto ciascuno ha attraversato, e le ragioni della fuga, guerre, persecuzioni, anch’esse un motivo comune, si aprono ai vissuti in quel momento, al tempo di un’attesa di cui non si riesce a pensare un esito, che si ripete uguale nei molti tentativi di passare dall’altra parte, in Gran Bretagna, frustrati dalla polizia, dai controlli, da altre identiche violenze che obbligano i gli abitanti della Jungle a nuove fughe, i cani, i gas, i manganelli.

 
In questo spazio Perceval e Klotz portano il loro universo cinematografico, un cortocircuito che prende forma nelle stradine di fango dove malgrado tutto la gente vive, tra quelle case, in alcuni momenti condivisi davanti all’obiettivo, come quando una delle protagoniste cucina e intanto litiga scherzosamente con uno dei suoi amici. Confidenze, istanti di allegria, la stanchezza. I bar, i piccoli ristoranti che qualcuno ha aperto, la musica, le partite di cricket, un «esistere» che cerca di riaffermarsi in qualche modo: il paesaggio somiglia a quello delle città nel Klondike dove arrivavano i cercatori d’oro inseguendo il sogno di ricchezza, qui i sogni sono diversi, gli esiti nella loro delusione per molti forse simili.

 
In quale  momento ciò che vediamo nella distanza dei media diventa vicino? Calais è molto altro che sporcizia e vergogna e tutte le ragioni per cui il governo francese ha raso al suolo la Jungle. È, appunto, quella vita di resistenza, la stessa che appartiene alla poetica dei due registi, a un lavoro che a partire dai mezzi produttivi, cerca di rendere visibili le zone autonome di esistenze in lotta: universi «paralleli» che del mondo «principale» rivelano le contraddizioni e il conflitto, frontiere come quella che sepra lungo l’autostrada la Jungle dal resto della Francia: è un «terrain vague» dove è possibile la solidarietà, che lo sguardo di Klootz e Perceval ci restituisce nell’immediatezza della vita.

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Immaginiamo una anziana e bella signora che vive in una fattoria della Normandia, vicina di casa adorata dal cineasta che avrebbe sempre voluto filmarla senza riuscirci. Finché un giorno non arriva Toto, un piccolo cinghiale che la signora adotta contro le leggi che vietano di addomesticare animali selvatici. Il piccolo Toto mangia al biberon e trotterella dietro alla dama in campagna, gioca col cane un po’ seccato, ronfa sul suo lettino davanti al fuoco.

 

 

 

 

Va Toto! è il bel film di Pierre Creton, cineasta e fattore, tra i nomi cari al Fid, che coi suoi film compone una narrazione di un luogo, laddove abita, che è insieme emozionale e dentro al tempo. Quella di Madeleine, il nome della signora, che nel corso del film potrebbe sembrare la stravaganza di una persona sola, diventa il segno di una condizione contemporanea. Intorno a lei c’è un universo in cui uomini e animali intrecciano le loro vite, fantasmi di un passato a volte doloroso che cerca in questa commistione una sua strana serenità.
Girato con libertà formale, che trasforma grazie all’uso di voci off di attori – quella di Madeleine è di Françoise Lebrun – in personaggi Va Toto! è una magnifica commedia umana in cui al centro non c’è solo l’uomo, raramente gli animali sono stati filmati con tante delicatezza e sensibilità. In questo universo comune sentimenti e fragilità trovano una voce, un posto, un senso. Ci dicono dello stare al mondo e dell’amore, parlano del femminile e del maschile, di quelle battaglie intime che appartengono a tutti.