Quello scavezzacollo di Pinocchio anno per anno ci propone nuove avventure, con quello stile tipico del comico di ripetere il gesto, ma anche con qualche variazione, più o meno percepibile, che gradualmente porti al cambiamento dell’immagine del più ambiguo dei burattini. Il 2019 è stato l’anno del Pinocchio di Matteo Garrone, che con questo film ha ulteriormente esteso, dopo i Cunti di Basile, una sua vena fiabesca – ben fluida anche dietro ai racconti più crudamente realistici – e ha interpretato con disciplina filologica – a parte alcune sforbiciate che hanno regalato una maggiore rapidità di esecuzione a scapito di alcune visioni collodiane potenzialmente lisergiche – una storia e uno spazio narrativo che dalla letteratura ha preso il volo in tanti altri mondi dell’intrattenimento.
Carlo Lorenzini lo scrisse tra il 1881 e il 1883 per il Giornale per i bambini, e nonostante l’immediato gradimento da parte del piccolo pubblico e la sua immediata circolazione in volume, non poté mai immaginare neppure lontanamente il successo stratosferico che nel corso dei decenni avrebbe avuto. Così grande, in una corsa così lunga e veloce, a volte anche così sgangherata, che sembra un miracolo che alla fine non si sia rotto il collo. Fuor di metafora: non si può tirare troppo la sua identità senza il rischio di strapparla.

LA FIABA COLLODIANA, come ogni fiaba che si rispetti, è nella sostanza un’allegoria dell’identità e delle sue metamorfosi, che ha avuto la fortuna o il merito di presentarsi alle soglie di un secolo che avrebbe fatto del tema dell’individuo una specie di ossessione. Il Novecento ne ha riconosciuto e valorizzato la natura di palinsesto (una superficie riscrivibile e che tuttavia lascia riemergere le più antiche stesure) e l’ha eletto ora a modello ora ad archetipo.
Cercare di capire bene che cosa sia quel testo nel punto di sutura tra la sua specifica unicità storica e la sua alienata riproducibilità senza tempo è quindi un’impresa necessaria e da rinnovare. Da ultimo l’ha fatto Rossana Dedola con Pinocchio e Collodi. Sul palcoscenico del mondo (Bertoni Editore, pp. 282, euro 18), uno studio che percorre l’intero arco cronologico in cui si svolge l’avventura del testo pinocchiesco, e anzi lo inizia da prima della sua invenzione. Il primo capitolo di questo libro, che si fa leggere agevolmente come se si leggesse una storia, è di fatto una biografia di Carlo Lorenzini.
Dalla sua nascita, costellata di difficoltà e lutti; attraversando le sue prove scolastiche, sempre in bilico e comunque passate con evidente irrequietezza, e il suo fervente impegno politico e patriottico durante il 1848, che lo vide combattente sui campi di battaglia della sfortunata guerra contro gli austriaci; poi la scoperta dell’attività giornalistica, subito iniziata in quegli anni di rivolta con la rivista umoristica Il Lampione; i primi passi nel mondo della letteratura, anche teatrale, e la costruzione di un proprio profilo di umorista e di recensore, e quasi di censore; e quindi ancora il crescente impegno per la lettura dei più piccoli, dentro la scuola e nel tempo libero, dai mondi fatati ai programmi educativi che gli valsero il titolo di Cavaliere del Regno (1877), fino alla produzione del suo capolavoro e agli ultimi anni di attività narrativa.
Dal 24 novembre 1826 al 26 ottobre 1890 sono 64 anni di storia, sufficienti per vivere tutta la tensione politica e morale di quegli anni, che tra una ribellione brevissima (’48-’49) e una più lunga restaurazione (tolto il tricolore dalla bandiera del Granducato), sfociano sì nel mondo unitario ma che anche soffocano visioni repubblicane o semplicemente libertarie, e comunque stabiliscono una normalizzazione che, dopo più di vent’anni di Regno, hanno prodotto delusioni e insofferenze che un po’ traspaiono nel carattere scontroso del burattino.
Era questo carattere simile a quello del suo inventore? È la domanda che trasale leggendo nella storia letteraria di Collodi la vita personale di Lorenzini, coi suoi ideali, le sue pose sociali, l’impasto di autoironia e di umiltà, gli amori romantici tra le amicizie e le antipatie.

IL MOTIVO per cui Dedola affonda nel mondo biografico di Carlo, tanto da dedicargli più della metà del libro, ha un obiettivo critico, che si realizza nel secondo e terzo capitolo. Uno propone un’interpretazione delle Avventure, secondo una chiave che privilegia sì l’intrinseca immagine delle metamorfosi cui è soggetto il piccolo eroe ma che non tralascia di sottolineare l’incertezza e l’ambiguità che ne caratterizzano certe scelte e debolezze. L’altro guarda soprattutto agli sviluppi visuali di Pinocchio, particolarmente quelli avvenuti nell’ambito dell’illustrazione libraria e nelle varie arti visuali e multimediali. Entrambi corrono verso un unico fine: di poter restituire alla sua genesi (e al suo genitore) questa fortunata gemmazione.
Una proliferazione che nell’ultimo anno conta, e solo in Italia, una ventina di reinterpretazioni nei più vari contesti artistici. A Villa Bardini a Firenze, sarebbe stata ancora aperta, fino al 23 marzo 2020, la mostra Enigma Pinocchio, con opere di Giacometti, La Chapelle, Munari, Paladino, Calder, Ontani, McCarthy, ma si può fare riferimento al catalogo (Giunti, euro 20). Un fascino nel riscrivere al quale non hanno resistito, per andare alla letteratura per adolescenti, né Piumini né Girolamo Stilton.
Da alcuni decenni semiotici, letterati, storici della cultura e dei media, estetologi si interrogano sul caso Pinocchio e documentano la sua capacità di suscitare desideri di replica e variazione. Tra gli ultimi lavori collettivi e multidisciplinari si possono citare gli atti del convegno Senza giudizio … e senza cuore (a cura di P. Ponti e M. Marazzi, Pisa, Serra, 2018) e Pinocchio e le “pinocchiate” (a cura di L. Curreri e M. Martelli, Cuneo, Nerosubianco, 2018).
A questa direzione va comunque associata un’altra esigenza, alla quale risponde anche il libro di Dedola, cioè di capire meglio le condizioni originarie di quella invenzione. Naturalmente non si può ignorare che da anni si sta preparando, sotto la direzione di Daniela Marcheschi e con la collaborazione di molti curatori, l’Edizione nazionale delle Opere di Lorenzini (5 i volumi pubblicati sui 14 previsti), che dà certamente una base molto solida, utile anche a comprendere la genesi di questa eccellenza. Un’iniziativa promossa dalla Fondazione Nazionale Carlo Lorenzini, che proprio in questi giorni ha prodotto una copia anastatica della prima edizione delle Avventure di Pinocchio, quella del libraio Felice Paggi di Firenze, con le soavi ed essenziali illustrazioni di Enrico Mazzanti: leggerla così pare un’altra storia.
Così, infine va segnalata una simpaticissima e bella edizione della brutale Storia di un burattino (Il Palindromo, pp. 150, euro15) così come la lessero i piccoli nelle prime quindici puntate del 1881: quella terribile in cui Pinocchio muore impiccato alla Quercia grande. L’ha curata Salvatore Ferlita, che l’accompagna con un breve saggio in cui approfondisce il significato, letterario ed editoriale, di questa prima forma o primo nucleo delle successive Avventure, che definisce sia come racconto del terrore sia come Pinocchio rimosso.
Certo rimosso, anche dall’autore che volle dare almeno un’altra vita al suo personaggio, ma non scordato. E ad accentuare la dimensione terrifica che Collodi aveva immaginato per la prima apparizione di Pinocchio, con quel suo profilo stolto e sfortunato, ci sono le tenebrose illustrazioni di Simone Stuto, un bianco e nero che riesce a far visualizzare nel suo tratto duplicato e mobile quella essenza instabile e incerta, quella dolente verità di un’infanzia non riconosciuta e violentata, e mandata a morire dal perfido Mangiafuoco in cambio di cinque zecchini.