Giorgio Selva è un famoso conduttore televisivo che in genere sa tenere testa a tutti con le sue domande incalzanti (solo la prima donna presidente del consiglio gli azzera fantozzianamente la salivazione). Così è abituato a muoversi, sa sempre cosa dire, anche perché il copione è scritto da un’equipe e tutte le sue parole vengono pari pari dal gobbo che gliele suggerisce. Resta il fatto che la gente lo conosce, lo riconosce e vuole farsi il selfie con lui.

Ben altro personaggio è Giorgio Selva in privato. Da anni ha chiuso con la moglie che non ne vuole più sapere, ormai vive senza donne, lui che un tempo collezionava tradimenti, e quando timidamente vorrebbe corteggiare la barista degli studi Rai dove registra, sembra più imbranato di un dodicenne. Ma questo è niente perché il vero cruccio è Tito Selva, il figlio adolescente che ancora bambino aveva deciso di vivere un po’ con mamma e un po’ con papà. Giorgio non sa come prenderlo, gli concede tutto, dalla carta di credito a disposizione sino alla casa perennemente invasa dalla «banda dei froci», i misogini amici e compagni di scuola di Tito.

In compenso lo assilla con le sciocchezze legate al disordine e al dentifricio stappato. Due mondi incapaci di rapportarsi, tantomeno di capirsi in una mostruosa confusione di ruoli («due sberle no?» dice a Giorgio un paziente in ospedale che assiste a una discussione). E l’improbabile tormentone è una estenuante gita sul monte che Giorgio vorrebbe fare con Tito e che lui, comprensibilmente, scantona.
Il tono di Francesca Archibugi alla regia (e alla sceneggiatura con Francesco Piccolo), è da commedia e tenta di riequilibrare il racconto romanzo di Michele Serra da cui Gli sdraiati prende le mosse. Nulla di male, solo che ci sono troppi insert drammatici o presunti tali come un dubbio di incesto, una rovinosa caduta dal tetto della scuola, la morte del nonno letteralmente telefonata, tutti elementi che stridono con la scelta di fondo, mentre funziona meglio lo scarto che tende al grottesco dovuto alla visualizzazione del romanzo che Selva vorrebbe scrivere, in cui si racconta di un mondo rigidamente governato dai vecchi con i giovani costretti a trasformarsi in brigate di ribelli antigeriatrici.

Il racconto procede così a strappi, momenti piuttosto efficaci e anche decisamente brillanti vengono stemperati da altre situazioni meno riuscite.
Evidente che chi si affaccia al mondo cercando di ritagliarsi uno spazio abbia più diritti di chi una sua collocazione dovrebbe averla già trovata da tempo, e è altrettanto evidente che una generazione di padri ha abdicato al proprio ruolo contribuendo allo smarrimento e alla sfiducia nel futuro da parte dei giovani. Certo i Tito hanno comunque le spalle coperte da genitori benestanti, ma il disagio vale anche per loro. Claudio Bisio è il babbo mentre Gaddo Bacchini è il figlio impermeabile a qualsiasi richiesta (esordiente che interpreta quasi se stesso).
Sullo sfondo Milano, orfana di fresco della agenzia europea dei medicinali, ma estremamente vivace e magnificamente fotografata e rappresentata, dopo la recente overdose romana, merito della Indiana Produzioni