Un padre e una figlia nella fine del mondo, l’atmosfera è un po’ quella di La strada (il film di Hillcoat tratto dal celebre romanzo di Cormac McCarthy) ma declinato al femminile – con qualche suggestione alla Handmaid’s Tale.

L’UMANITÀ disumanizzata che lì lottava per la sopravvivenza a ogni costo – «liberandosi» come accade e non solo in una realtà di guerra di ciò che permette una convivenza quotidiana – in Light of my Life fa sua una variante: l’apocalisse ha sterminato il genere femminile e la figlia del protagonista è forse l’unica donna sopravvissuta. Come difenderla dunque, come proteggerla, come salvarla dal massacro certo dei maschi impazziti?
Diventerà un ragazzo anche lei, travestita da uomo per non soccombere.

E intanto il padre che è divenuto anche madre prova a tesserle intorno un universo parallelo, fatto di storie, di parole, di suggestioni capaci di contrastare la sua rabbia, il suo dolore, le trasformazioni del corpo e dell’adolescenza – nel ruolo della figlia la giovane attrice Annie Pniowsky. L’obiettivo di Casey Affleck in questo vagabondaggio tra macerie più metaforiche che visibili sembra essere proprio quello di esplorare il conflitto morale dell’umano, quel confine tra «istinto», «cultura», «regole», un tracciato complesso in cui si respira una contemporaneità – anche se forse sarebbe ingiusto incollarci l’etichetta della cronaca – affidandosi alla narrazione di un passato e di un futuro che probabilmente non c’è, alla recitazione dei suoi protagonisti, alla natura, ai desideri e alla paura terribile che sovrasta ogni loro gesto, ogni istante della loro vita.

NONOSTANTE però queste premesse «alte» – o forse proprio per questo? – questo «disaster-movie» filiale dai toni crepuscolari e mai sottolineati non sembra trovare una chiave con cui chiudere il proprio racconto vagando a vuoto tra i molti luoghi comuni dei generi.