Lo ha lasciato. Come la buccia dell’arancia, che con pazienza lui ha cercato di tagliare per intero e che si è rotta all’ultimo giro di coltello. Si è staccata, non fa più parte. Con questo gesto tanto minuscolo quanto geniale, Ozu aveva saputo rendere, nel finale di Tarda primavera (1949), il sentimento di un anziano professore, rimasto solo dopo la partenza della figlia, che pure lui stesso aveva spinto a sposarsi e a “vivere la propria vita”. La ragazza avrebbe voluto invece che quella buccia non si staccasse mai e che la difendesse da un destino sociale oscuro e obbligato.

2013: tempi altri, altro tono, eppure il profumo di un retrogusto comune: la galassia del rapporto padre figlia, quel mare di non detto, quel mood intriso di attrazione, imbarazzo e desiderio di protezione, cui guarda anche Soul Flower Train di Hiroshi Nishio, un’opera che ha deliziato il pubblico del Wa! Japan Film Festival di Firenze, giunto alla sua quarta edizione e per la prima volta quest’anno ramificatosi anche a Milano, dove si è concluso giovedì 15.

Il film muove da una traccia basica, ispirata, come diversi lavori scelti dal Wa!, a un manga – in questo caso è di Robin Nishi (2008) – e al tempo stesso profumata di echi cinematografici: perché nel viaggio del signor Amamoto per rivedere la figlia che diversi anni or sono ha lasciato i genitori e la campagna di Oita per trasferirsi a Osaka e studiare danza al college, possiamo ritrovare sia ancora Ozu di Viaggio a Tokyo, elegia sublime sulla relazione genitori figli, tra tangenze e abissi di vita che li separano, sia ancora, per esempio, Tornatore di Stanno tutti bene, con un Mastroianni dalle lenti ottundenti, sballottato in giro per l’Italia per andare a trovare i figli ormai adulti, fra aspettative legate a una vecchia foto e il ruvido emergere della realtà che li riguarda. (Tra l’altro Hiroshi Nishio racconta di aver desiderato per la prima volta di fare questo mestiere vedendo Nuovo cinema Paradiso).

Ecco: una foto, come espressione di un immaginario cristallizzato, che fa fatica a sporgersi oltre il recinto rassicurante dell’infanzia dei figli. Anche la percezione di Amamoto (Mitsuru Hirata), dignitoso e un po’ ingenuo signore giapponese, sembra infatti essersi fermata al momento in cui la sua Yuki (Sayoko), oggi ventunenne, era ancora una bambinetta in tutù e lo guardava felice, un attimo prima di corrergli incontro e di lanciarsi tra le sue braccia, fiduciosa che lui l’avrebbe tenuta. Questa l’immagine che porta sempre con sé e che mostra orgoglioso. Trattandosi poi di una ragazza, c’è poi in lui una sorta di atavica sindrome da “Intanto il tempo se ne va”, innanzi al farsi donna della figlia, che unita alla paura della grande città e ad antichi pregiudizi sulla vita delle ballerine, gli rende ansiogeno il confronto.

Tutto questo se la trama non offrisse un intelligente detour: l’incontro con l’ironica “bionda”e disillusa Akane (Marin), pressappoco la stessa età di Yuki. La ragazza si offre di fargli da guida nell’attesa di rivedere la figlia. E se con lei, con un’altra da Yuki, Amamoto potrà conoscere le mille luci creative di Osaka – la città del regista, ritratta in un profluvio rinfrancante di colori – il panorama dalla torre Tsutenkaku, i cibi più “intriganti di tutta l’Asia”, le slot machine, dove vince un gigantesco orso in peluche … e persino il mondo dei locali di strip-tease e del “flower train” – il treno fiorito, numero erotico in voga negli anni ‘70, che unisce le abilità “prensili” della vagina a quelle sottili della calligrafia, rimandando con sorprendente delicata grazia all’emancipazione del sesso femminile dai genitali maschili – forse potrà anche essere pronto per vedere davvero la figlia e la sua vera vita, lo scarto tra i sogni di lei e un modo duro e adattivo di realizzarli (Akane l’ha già vista altrove e sa bene in quali locali è molto popolare). Sì, quanto sarà capace di essere vicino a quella giovane donna sconosciuta che, avendo perso il padre, homeless, soffre di immensa Daddy nostalgie, nonché di aiutarla a recuperarne le ceneri in una scena buffissima e commovente, tanto più saprà accettare incondizionatamente sua figlia adulta, sessualità compresa, ed esserle a fianco, mano nella mano, anche in momenti inimmaginabili …

Tra il rock dei gruppi locali e il suono magico di una fisarmonica, Soul Flower Train apre così a una levitas profonda, sensibile e surreale, a un volo tra quelle braccia, che ancora continua. Da reinventare ad libitum dalle figlie e dai padri.