Anche se nella cinquina degli Oscar non è riuscito a imporsi su Il cliente di Farhadi, più «sintonizzato» con le (apparenti) esigenze politiche delle statuette 2017, Toni Erdmann – nella versione italiana, Vi presento Toni Erdmann, ma consiglio di cercare quella originale nelle sale che la proiettano – è comunque il film dell’anno. Non solo per il successo ottenuto ovunque dal festival di Cannes, dove era in concorso, in poi, ma soprattutto per quella sua capacità di esprimere, attraverso un racconto edipico, fragilità e fratture contemporanee. In modo sottile, quasi in contropiede, affidandosi ai corpi spaesati, in una continua «gaffe» esistenziale, dei suoi protagonisti, la biondissima e impassibile Ines (Sandra Hüller) e lo stralunato Winfried (Peter Simonischek).

 
Un padre e una figlia,lui insegnante di musica in pensione col vizio dello scherzo che non risparmia nessuno, dai fattorini ai familiari, passa le giornate tra le visite all’anziana madre e le cure al cane ormai vecchio e cieco. Lei, giovane in carriera in una multinazionale tedesca con sede a Bucarest, dove ha il compito di economizzare le risorse locali – che vuol dire esternalizzazione e licenziamenti – attraversa la vita attaccata al cellulare. Nei tailleur neri perfetti, Ines misura con durezza il suo potere sugli altri – l’amante, la giovane assistente precaria … – salvo poi accettare continue umiliazioni dai superiori convinta che sia utile alla carriera.

 
Nel tentativo di avvicinarsi alla figlia Winfried piomba a sorpresa in Romania ma le sue stranezze producono l’effetto opposto. L’uomo riparte per la Germania, il film procede un po’ sulla donna finché in modo inaspettato – una sequenza da commedia degli equivoci sublime – il padre torna in campo. O meglio non lui ma il suo «avatar»: parrucca, una dentiera che lo fa somigliare a Jerry Lewis, Winfried è diventato Toni Erdmann, improbabile faccendiere con l’aura del clown triste e il desiderio di scompigliare il rito sociale di infelicità e ipocrisie che la figlia si è imposta: «Quando parli da sola al telefono chiamami» le dice lasciandola annichilita.

 
Marien Ade trasporta in questa trama di sentimenti familiari con precisione narrativa, di scrittura, direzione degli attori, regia il sentimento del nostro tempo, in cui business globalizzato e neoliberismo determinano rapporti e decisioni anche intime nella cifra del calcolo frenetico, di ambizioni, ipocrisie, ambiguità. E questo senza trasformare la figura della figlia «tagliateste» in uno stereotipo di cattiveria, anzi esaltandone le note stonate, le esitazioni, una certa fragilità. Basta la presenza di Toni Erdmann, sempre fuori posto rispetto al costume che invece la donna ha deciso di indossare per provocare fratture inaspettate, e con la sua imprevedibilità soffiare scompiglio, leggerezza, umorismo nell’universo della figlia da cui sono stati espulsi. Forse per questo i travestimenti dell’uomo producono sempre un effetto di sincerità.

 
Funzionamento del cinema? Lui che simpatizza col lavoratore rumeno che sarà licenziato dalla figliola, lei che anche il sesso finisce con un’eiaculazione del ridicolo amante sui pasticcini, ennesima prova di forza di chi vacilla a ogni passo senza saperlo o forse sapendolo troppo sono due mondi ormai separati per sempre.
Tra loro è accaduto qualcosa che ha prodotto una resistenza: ci può essere amore ma non più trasmissione filiale, quella nostalgia è finita, e non basta scambiarsi la dentiera per ritrovarla.

 
Ma l’assenza di un sentimentalismo rassicurante, di caldi abbracci e padri (o figlie) ritrovati è la forza di un film che prende infinite direzioni per sorprenderle tutte e mantenere la propria coerenza. Un confronto tra generazioni – e con il mondo – che diventa commedia, risata crudele suo malgrado, mischiata a una empatia – e a un profondo rispetto – verso la materia umana sgraziata che i due protagonisti, ciascuno a suo modo, esprimono: commuovente e irritante, dolorosa e impossibile. A cui però non viene opposta l’alternativa di un universo egoticamente perfetto, perché non ci sono soluzioni nette, e non basta nemmeno la magia di una vecchia maschera per colmare la distanza della oltre il cuore.