La tempistica in politica conta. Non può sfuggire il significato che assume il fatto che lo stesso giorno in cui il neopremier tiene la tradizionale conferenza stampa di fine anno compaia sul quotidiano di Confindustria una megaintervista al ministro Pier Carlo Padoan.

È come se il ministro dell’Economia avesse voluto marcare il terreno. Da un lato per chiarire agli interlocutori privilegiati, la Confindustria appunto ma più in generale i grandi operatori finanziari, che la materia dell’economia è cosa sua e solo sua. Dall’altro lato, definendosi un accademico e non un politico, Padoan compie la più classica delle excusatio non petita, dal momento che il tono e i contenuti della sua esternazione inclinano assai più sul versante della politica, quale per eccellenza è quella economica, che non su quello della tecnica della questione bancaria.

Il ministro traccia esplicitamente l’agenda del governo – confermata poche ore dopo da Gentiloni – affermando perentoriamente che esso si occuperà della «implementazione delle riforme e del miglioramento delle misure» con particolare riguardo alla Pubblica Amministrazione, alla giustizia e al Jobs Act «il cui impianto va assolutamente difeso».

Un’agenda che ha l’evidente ambizione di andare ben al di là, nei contenuti e nella durata, di quella di un governo «istituzionale» dedito alla ordinaria amministrazione in attesa che una nuova legge elettorale consenta al più presto di chiudere la legislatura. Come invece ha recentemente ribadito lo stesso Renzi. Senza profetizzare divaricazioni di strategie tra il segretario del Pd e il nuovo capo del governo, né allo stesso tempo accreditare un semplice gioco tra le parti, si può notare che alla luce di questa intervista l’affermazione lapalissiana, ribadita da Gentiloni nella conferenza stampa di ieri, che «il governo lavora finché ha la fiducia del Parlamento» potrebbe assumere significati più impegnativi.

Così come acquisterebbero un senso ancora più perverso i tentativi dei mass media di area governativa di influenzare il giudizio della Corte Costituzionale per inibire la celebrazione del referendum sull’articolo 18, mentre d’altro lato il governo stesso si occuperebbe di compiere gli opportuni maquillage ai voucher e forse al sistema degli appalti, in modo, se non di impedire o rimandare, quantomeno di svilire l’impatto sociale e politico della consultazione referendaria sui temi del lavoro.

Difendere la continuità di governo diventa quindi decisivo. Malgrado l’evidente flop, derivante dal ritiro degli investitori di fronte a cotanto rischio, Padoan ribadisce che la «soluzione di mercato» pensata per Mps fosse la migliore, facendo finta di non sapere che anche sul versante della liquidità la Banca senese ha subito un rapido deterioramento proprio negli ultimi mesi.

Accenna alla necessità di punire manager incapaci, ma difende Marco Morelli, scelto perché allora gradito a JP Morgan. Evita di chiarire quali saranno le responsabilità precise dell’azionista Stato per dare un nuovo indirizzo alla terza banca italiana.

Traccia qualche distinguo, ma con moderazione e reverenza, rispetto all’improvviso rigorismo della Bce, dimenticando che ben peggio la stessa aveva fatto con le banche greche. Soprattutto se la prende ipocritamente con le banche d’affari internazionali che terrorizzavano il pubblico sugli «impatti sistemici del referendum», ma che durante la campagna referendaria facevano tanto comodo. Scivola via sull’argomento più spinoso e cioè se beneficeranno del «ristoro» integrale anche gli speculatori che hanno acquistato a prezzi svalutati titoli sul mercato secondario e che quindi si arricchiranno del denaro pubblico, affermando che «non si può escludere che in linea di principio qualcuno possa trarne vantaggio», quando invece bisognerebbe proprio impedirlo.

Accusa «la politica» se la questione delle quattro banche del Centro Italia è diventata tema da «guerra civile», come se non fosse più che lecita, e tutto sommato contenuta, la protesta dei cittadini truffati, dimenticando persino che c’è stato anche un suicidio. Difende la corsa all’oro delle Banche centrali europee, un «bene rifugio», con buona pace di Keynes che lo considerava «barbara reliquia».

Giudica infine più che capiente il fondo di 20 miliardi del decreto salva-banche, che invece operatori e giornali economici internazionali contestano per la sua esiguità, senza però precisare come pensa di fare fronte all’accrescimento del debito pubblico. Ma non siamo la Grecia, dove al governo la Ue non concede neppure di fornire un po’ di sollievo ai pensionati più poveri.