A Paco de Lucia si deve la rivoluzione tecnica ed estetica che ha sbalzato la musica gitana andalusa dalla penombra esclusiva del tablao alle luci stroboscopiche delle grandi ribalte internazionali. È il chitarrista tutto fuoco, fiamme e duende, vertigine e controllo, preciso come un compasso nell’imprevedibilità di ogni passaggio, che ha spostato i confini naturali del flamenco con la forza bruta delle dita, il fraseggio fremente che strappa il classico vale a ogni respiro, una cascatella di invenzioni armoniche in perenne, avvincente duello con il ritmo. Talmente nuovo e spericolato, il suo flamenco, che non c’è mai stato bisogno di sottolinearlo aggiungendo il classico «neo».

Per entrare nella storia gli sarebbe bastata quella raffica di dischi registrati negli anni ’70 e ’80 con Camarón de la Isla, che divenne il più grande di tutti i cantadores anche grazie a quella fiammeggiante cornice, al battente interplay a cui lo costringeva quella chitarra. Ma Paco de Lucia è andato oltre e nessuno ha mai avuto niente da obiettare. Il quotidiano El Pais ricorda giustamente come sia un caso quasi unico di artista che ha attraversato i decenni senza mai subire una mala critica, una stroncatura. E allora sarà stato anche questo applauso scrosciante e costante che a un certo punto lo ha portato a compiacersi di ogni trillo e acciaccatura, di ogni collaborazione. Ad abituarsi al ruolo del guitar hero, a comprare il suo posto tra le leyendas de la guitarra, con genuflessione ai suoi piedi di Steva Vai, come accadde una notte a Siviglia, inclusa nel prezzo.

Il niño prodigio di Cadice diventerà anche l’adulto sedotto dalle scorciatoie della fusion, il funambolo che divide il palco con John McLaughlin e Larry Coryell (sostituito poi da Al di Meola), il pioniere della world music intesa come trastullo espressionista, il mercenario che appoggia la sua chitarra dove lo pagano meglio. Però disse no a Julio Iglesias malgrado la montagna d’oro stanziata, causa pregiudizio che poi non ebbe problemi ad ammettere. In Italia ha detto sì ad Albano, Baglioni e Pavarotti, con simpatia. Ma non per questo ha interrotto la sua ricerca, né rinunciato alle otto ore di studio quotidiano. Una estrema forma di rispetto, forse, per quei chitarristi alle orecchie dei quali era diventato una divinità, che continuavano a infliggersi ore e ore di scale con le dita mortificate da un elastico, per provare a diventare veloci come lui.

Gli è restato in canna il sogno dei sogni, quello di registrare un intero disco a partire dai ritagli di nastro, scartati a suo tempo, con la voce esplosiva di Camarón, scomparso nel 1992. Non un solo brano come nel 26mo e ultimo lavoro a suo nome, Cositas Bonitas. «Cose belle», che per restare tali devono essere prese a piccole dosi. In un’intervista per farsi capire aveva azzardato un paragone con i luoghi, le persone e persino con i canutos (spinelli). Non certo con la sua chitarra.