Non so nemmeno più quando incominciai ad essere interessata al tema della pace, ma certo presto, perché nelle discussioni e nei convegni incontri dibattiti intorno al ’50 e poi via via in ogni occasione nei decenni successivi sempre illustravo come massimamente innovativo l’art. 11 della Costituzione, che appunto ripudia la guerra eccetera.

D’altra parte, avevo partecipato alla Resistenza, ricevendone il brevetto di «Partigiana combattente col grado di sottotenente», il che mi obbliga almeno a dare una spiegazione.

Ho narrato nel libretto sulla mia esperienza nella Resistenza che non ero allora «ideologicamente» non violenta, e del resto tuttora preferisco la locuzione «azione non violenta» a quella di «non violenza» che mi pare troppo passiva. Ad esempio ho sempre considerato lecito e non violento trasportare plastico per fare attentati a ponti o ferrovie, perché il danno alle cose escludeva vittime umane e portava danno materiale agli invasori o «nemici».

Per questo ho sempre ritenuto un merito della Resistenza italiana di considerare combattente anche chi non portasse armi. Questo modo di ragionare mi servì anche quando mi trovai di fronte all’agire di quei compagni resistenti che eseguirono condanne a morte o addirittura fecero parte di Gap o di Volanti.

Mi associai a chi sosteneva (come anche Sandro Pertini) che lo stato di guerra legittima nel diritto internazionale un uso della violenza anche non sostenuto né da codici, né da carceri, istituzioni che la guerriglia non possiede. Ragione di più per non volere la guerra.

Sicché costruire la pace in ogni modo è la maniera migliore di «ripudiare» (un verbo molto forte) la guerra. Il diritto internazionale riconosce ad ogni popolo invaso di difendersi come può e perciò anche con partigiane e partigiani. Il che invece Hitler non riconobbe mai a noi e ci chiamò «banditi».

Sono sempre dell’opinione che ripudiare la guerra e quindi avere una politica estera favorevole alla trattativa e ridurre le spese per gli armamenti siano le migliori prevenzioni della catastrofe bellica, opinione che la diffusione delle armi di distruzione di massa non fa che confermare.

Di ciò ero convinta da subito, già da quegli anni immediatamente postbellici, e infatti scrissi un articolo subito dopo il lancio della prima atomica sul Giappone, che presentai all’ufficio della censura americana a Novara (allora, come tutto il Paese, sotto l’occupazione dei vincitori della guerra).

Scrivevo che l’atomica buttata sui civili di un Paese vinto e che stava trattando la resa e la pace «ci mette alla pari coi nazisti». Fu rifiutato perché «non c’era spazio» e alla mia proposta di passarlo l’indomani dissero: «Domani ci saranno altre notizie».

Imparai che cosa è la «censura democratica».

Oggi si dice (e non è una battuta di umorismo nero) che gli arsenali atomici contengono armi tante da poter distruggere undici volte il pianeta, che è la definizione stessa di follia, quella che nel sonno della ragione genera mostri.

Negli anni a cavallo dell’80 esplose il pacifismo, e io ero sempre presente. Stavo nell’organizzazione e nella promozione di tutte le marce per la pace, le manifestazioni, gli eventi: è mio il motto «Fuori la guerra dalla storia», lo slogan più presente in quegli anni.

Volevo che la guerra non fosse una continuazione della politica con altri mezzi. Per questo cercai di liberare il linguaggio politico dal linguaggio di guerra: da «militanza» a «impegno« e da «non violenza» ad «azione non violenta».

L’azione non violenta è creativa, implica una azione che fermi e si imponga contro la violenza, mentre la non violenza è più un trattenersi, un non rispondere forzatamente, ed è anche un’idea vecchia e trita e ritrita che veniva usata in tutti i comizi politici.

Continuo ancora oggi a essere affascinata dall’idea che la storia umana può continuare senza guerra.

* (da «Canta il merlo sul frumento», manni Editori 2015)

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