Ieri, primo giorno dell’anno nuovo, era anche la giornata mondiale della pace.

Il Papa lo ha ricordato all’Angelus, soffermandosi sul problema dei migranti, specialmente quei milioni che in tutto il mondo fuggono dalle guerre. Per lui bisogna saper «discernere» con «sguardo contemplativo» i segni che fanno di questo dramma epocale foriero di paure, tensioni sociali e odio, invece «una opportunità per costruire un futuro di pace».

Il presidente Mattarella ha proposto di «meditare» sul fatto che i «ragazzi del ‘99» – cioè i nati nel 1999 – oggi, a 18 anni, andranno a votare il prossimo 4 marzo, mentre i loro coetanei di un secolo fa erano mandati a morire in trincea.

Nel nuovo anno si celebra – non tanto, direi io, la «vittoria» – quanto la fine della prima guerra mondiale. Che però, come sappiamo, non finì mai veramente fino al 1945. Mentre oggi sembra riprendere con vigore, sia pure «a pezzetti», in tante parti del globo, mentre torna l’incubo nucleare.

È pur vero che in Europa – con la terribile eccezione dei conflitti balcanici, e oggi della crisi in Ucraina – viviamo in pace da 70 anni. Questo può farci sperare che dal seme delle culture che hanno provocato le guerre più orrende, lo sterminio degli ebrei con tanti altri massacri, possa maturare non solo l’idea ma la realtà effettiva di una società pacifica?

Non lo so, naturalmente, e non ci spero molto.

Credo però che sia il tempo di un impegno più radicale, capace di vedere non solo le cause sociali, culturali e economiche dei conflitti, ma di sviscerare «con discernimento», come direbbe il gesuita Francesco, l’origine profonda, antropologica e simbolica della violenza: quella che accompagna inesorabilmente il potere nelle istituzioni e nelle relazioni, quella che alberga in ognuno di noi.

E noi per me significa io, io uomo, noi maschi.
Mi interrogo sui nessi che legano la violenza e il potere maschile – oggi globalmente e giustamente sotto accusa, dalle molestie ai femminicidi – alle altre forme di violenza personale, sociale, bellica, che in ogni caso, da secoli, sono esercitate prevalentemente da uomini.

Un testo delle femministe del mercoledì (Sulla violenza, ancora – leggibile a questo link) apre molte domande proprio su questo terreno, partendo dalle forme oggi più socialmente percepite di violenza quotidiana, fonti di paura e di reazione: quella degli uomini contro le donne, e quella indiscriminata dei terroristi (per lo più uomini). Senza rimuovere la guerra, i razzismi e anche le aggressioni all’ambiente.

«Ci sono somiglianze e differenze – avverte il testo – affinità e distanze incommensurabili tra chi uccide per “troppo amore” e chi per avere una contabilità dei morti». E cita poi un uomo, il filosofo Emanuele Severino che «ha tagliato corto»: «Il giovane terrorista che si sente emarginato dalla società sempre più complessa, è portato a vendicarsi in modo analogo a quello del maschio che si trova respinto».

L’interrogativo è quindi approfondito: «Possiamo azzardare che gli uomini tolgono la vita, aiutati da una strumentazione tecnica mortifera, perché vivono il loro corpo, e quello altrui, nel segno patriarcale del possesso e della disponibilità illimitata, comune alle diverse tradizioni culturali? Possiamo azzardare che questo avviene perché non sono in grado direttamente di generare la vita?».

Il mio buon proposito di inizio anno è quello di dedicare questo spazio a parole che possano aiutare uno scambio (una prima occasione pubblica è prevista entro febbraio) a partire da queste domande.