I risultati della riunione dei ministri degli Interni dell’Unione europea tenutasi il 14 scorso segnano un ulteriore arretramento di fronte al riacutizzarsi del fenomeno di profughi e migranti. La logica di assurda difesa e chiusura manifestate, in varia misura, dai paesi membri e dalle istituzioni dell’Unione nei mesi scorsi sembravano aver conosciuto una svolta e persino nuove disponibilità all’accoglienza per effetto di immagini e dati particolarmente drammatici diffusi dai media agli inizi del mese. Ma ora sembra tutto già rientrato.

L’unica risposta che continua a far ben sperare è quella venuta da cittadini, iniziative auto-organizzate e associazioni in vari paesi e che hanno fatto emergere sentimenti di solidarietà verso i rifugiati affatto diversi da quelli di paura e xenofobia che continuano ad essere incoraggiati e sfruttati nel modo più spregiudicato.
Ma perché un tale mutamento della coscienza collettiva metta radici e diventi abbastanza forte da esercitare una pressione efficace su governi e istituzioni dell’Ue bisogna che maturi una piena consapevolezza delle proporzioni del fenomeno e delle sue cause principali.

I dati di fatto con cui fare i conti sono chiari. L’anno scorso il totale di sfollati, profughi e rifugiati, riconosciuti come tali dall’Alto commissariato delle Nazioni unite, è stato di 54,9 milioni di persone. La maggioranza di queste persone ha trovato rifugio negli Stati vicini. Di questi, i 10 che ne hanno accolti di più, per un totale di 8,2 milioni, sono: Pakistan, Turchia, Libano, Iran, Etiopia, Giordania, Kenya, Ciad, Uganda, Sudan. Se consideriamo il Pil pro capite (a parità di potere d’acquisto), vediamo che la disponibilità complessiva di questi 10 paesi è 1/5 di quella dei 10 più ricchi dell’Ue. Quelli che, proprio per questo, sono tra le mete più agognate dei rifugiati e migranti, cioè Svezia, Finlandia, Danimarca, Gran Bretagna, Olanda, Belgio, Germania, Austria, Francia, Italia.

Il confronto è semplice: se la disponibilità di questi Stati verso i profughi fosse pari a quella dei 10 più ricettivi che abbiamo elencato prima, di rifugiati ne dovrebbero accogliere 41,1 milioni. Altro che i 120mila previsti dal piano Juncker e pure contestati. Per non dire, poi, della forzosa distinzione tra chi fugge da guerre e conflitti civili e chi cerca di scampare a povertà e condizioni di vita comunque insostenibili.

In realtà, le cause principali dell’aumento del numero di rifugiati e migranti registratosi da un decennio, con un’impennata negli ultimi tre anni, sono due.
La prima è dovuta alle guerre imposte dagli Usa e dai loro più stretti alleati in Iraq e in Afghanistan, al rinfocolamento di vecchi conflitti, come quello in Sudan. Per non dire del sostegno diretto e indiretto dato a ribellioni contro regimi non si sa se più colpevoli di dispotismo o piuttosto di ostilità agli interessi della Nato. L’ultimo esempio è quello siriano. Agli storici l’analisi precipua delle responsabilità. Ma è indubbio che, al di là dei nobili intenti di volta in volta propagandati, i metodi adottati e i risultati raggiunti hanno comportato enormi sofferenze e lutti per le popolazioni.

Non è certo un caso che i paesi che l’anno scorso hanno contato il maggior numero di rifugiati, profughi e sfollati siano stati: Siria, Colombia, Iraq, Repubblica democratica del Congo, Afghanistan, Sudan, Sud Sudan, Somalia, Pakistan, Repubblica Centrafricana. Il loro elenco è indicativo delle manovre tardo-colonialiste in cui sono coinvolti gli Stati Uniti e alcune delle maggiori potenze europee. Sicché, succede che tra i paesi recalcitranti a dare asilo ai rifugiati vi siano alcuni dei maggiori responsabili delle loro sofferenze.

Molto più diffusa e varia è la geografia della seconda e concomitante causa dell’esodo, quella di quanti cercano di fuggire da condizioni di povertà e sfruttamento divenute insopportabili. Ed è la geografia della delocalizzazzione produttiva, quella con cui le multinazionali hanno trasferito parti crescenti della propria attività in paesi con manodopera a basso o bassissimo costo e che consentono di avere mano libera nello sfruttamento anche delle risorse naturali, senza alcuna remora per i danni all’ambiente.

Se le cause sono queste, le vie d’uscita vanno ricercate su due piani.

In primo luogo, occorre sviluppare una forte iniziativa politica per indurre i governi a ritirarsi dai vari teatri di guerra e da iniziative di sostegno all’una o all’altra delle fazioni in lotta nei conflitti civili. Iniziative che, per la maggior parte risultano falsamente motivate e i cui risultati, non a caso, sono opposti a quelli degli obiettivi proclamati. Su questo terreno è urgente un totale mutamento di rotta promuovendo una seria ricerca di soluzioni politiche che riportino davvero stabilità e pace.
Sul secondo versante, è indispensabile porre limiti ad una delocalizzazione produttiva il cui scopo principale è stato e resta quello di spingere verso una competizione al ribasso delle condizioni di lavoro, sia nei paesi di più antico che di nuovo sviluppo.

Non si tratta certo di imprese facili e i progressi che si potranno fare in queste direzioni sono tutt’altro che scontati. Ma dobbiamo essere consapevoli del fatto che l’Europa e gli Stati Uniti si trovano oggi di fronte ad un punto di biforcazione oltre il quale si prospettano possibili evoluzioni assai diverse tra loro.

La prima è contrassegnata dal prevalere della logica della “fortezza assediata” e dalla difesa di ciò che viene percepito ed indicato come una minaccia proveniente dall’esterno verso gli equilibri economici e sociali di paesi più sviluppati. Il che ripropone chiusure nazionaliste e sentimenti xenofobi non molto differenti da quelli che hanno segnato le pagine peggiori della storia europea.

La seconda considera il fenomeno come una sfida ineludibile che può essere affrontata con politiche positive e ben calibrate d’integrazione all’interno. Politiche basate sul ripristino dei diritti del lavoro e sociali erosi in trent’anni di neoliberismo e la cui ricostruzione valga per migliorare le condizioni di vita dei vecchi cittadini come per offrire possibilità reali ai nuovi. Mentre nei rapporti internazionali occorrerà perseguire tenacemente politiche di pace e di cooperazione internazionale capaci di mediare tra i diversi interessi in campo anche in situazioni di particolare difficoltà.

È una prospettiva non facile da perseguire, ma è l’unica in grado di rispondere efficacemente ai problemi posti dal fenomeno che abbiamo di fronte. Problemi che non derivano tanto dalle sue proporzioni quantitative, quanto dalla sfida di un nuovo universalismo dei diritti.