La porzione d’Africa reduce dal colonialismo italiano sta cambiando passo. E domenica scorsa è stata una giornata doppiamente storica, per due avvenimenti che si sono svolti ad Asmara e ad Addis Abeba: una visita e un funerale.

NELLA CAPITALE DELL’ERITREA il presidente somalo Mohamed Abdullahi Mohamed – più noto con il suo soprannome di Farmajo, storpiatura dell’italiano «formaggio» – ha stretto la mano e firmato una dichiarazione congiunta con il presidente eritreo Isaias Afwerki. Il dittatore Afwerki ad essere precisi, cementato al potere dal 1997 ma che recentemente sta cambiando pelle, anche se continua a prevedere una leva obbligatoria quarantennale per propri cittadini costringendo tutti quelli che non vogliono sottostarvi a fuggire oltreconfine o verso l’Europa.

LA LORO STRETTA DI MANO, che sancisce la ripresa di relazioni diplomatiche, farebbe anche venir meno la necessità di questa popolazione perennemente mobilitata e in armi proprio con l’alibi della minacciasomala. E dovrebbe aprire la porta alla fine dell’embargo internazionale all’Eritrea, così come ha chiesto lo stesso Farmajo. Lui è il primo capo di Stato somalo a mettere piede nella capitale della nazione che conquistò l’indipendenza dall’Etiopia nel ’91, quando cioè il vecchio dittatore Siad Barre era già stato destituito, lasciando dietro di sé una guerra civile più che ventennale da cui la Somalia sta solo recentemente emergendo.

La sua visita è anche la prima di un capo di Stato estero dopo la firma dell’accordo di pace tra l’Eritrea del nuovo corso di Afwerki e il nuovo e dinamico presidente etiopico Abiy Ahmed. E costituisce una rapida possibile evoluzione verso la stabilizzazione dell’intera regione del Corno d’Adrica. Aferwki ha trattato da «fandonie» le vecchie ruggini e in particolare le accuse da parte di aver negli anni finanziato e sostenuto gli attentati degli Shabab in Somalia, ora si dice pronto a collaborare con Mogadiscio nella lotta al terrorismo oltre che nella cooperazione politica e d economica, «rispettando la sovranità e l’integrità territoriale della Somalia» e facendo evidentemente da mediatore nei rapporti con gli Emirati, in rotta con Farmajo per la sua neutralità nella disfida con il Qatar.

MA SE IL MOSAICO delle complesse relazioni che si dipanano dall’Africa qui sembra chiudersi, il disegno si complica nel terzo territorio coinvolto: l’Etiopia. Mentre Afewerki e Farmajo si stringevano la mano ad Asmara, domenica, in Etiopia una folla oceanica salutava il feretro dell’ingegner Simegnew Bekele scontrandosi con la polizia antisommossa nella centralissima piazza Meskel, dove il corpo senza vita dell’ingegnere è stato trovato, riverso sul volante della sua auto giovedì scorso, un foro di proiettile dietro l’orecchio destro e la colt che ha sparato abbandonata sul sedile accanto.

BEKELE, 53 anni, ha avuto un servizio funebre degno di un capo di Stato: cavalli purosangue a scortare la bara (nella foto sopra), un corteo funebre di cinquanta auto bianche e una banda di ottoni in livrea d’onore. Era il project manager e il direttore della diga della Grande Rinascita sul Nilo Blu (nella foto sotto), un’opera faraonica, la più grande diga dell’Africa e la settima nel mondo, costruita al 60% dall’italiana Salini-Impregilo per quasi 5 miliardi di dollari, interamente a carico dello Stato etiopico che per finanziarla si è indebitato.

L’INGEGNERE ne era l’alfiere e qualcosa di più visto che la folla che ha partecipato al suo funerale ha lanciato slogan contro il nuovo governo che da aprile per la prima volta è capitanato da un leader di etnia oromo – quel Abiy Ahmed che ha siglato la pace con l’Eritrea – e ha sostituito le bandiere nazionali con la vecchia bandiera con la stella dell’impero di Abissinia. Bekele riposa accanto all’ex dittatore Hailé Selassiè, di cui condivide l’etnia amhara. Ma secondo il New York Times quando è stato ucciso stava per denunciare ritardi e corruttele nel varo della sua creatura, invisa all’Egitto e agli oromo per il disastroso impatto ambientale a valle.