Avvolto nella bandiera cilena, esumato dalla tomba accanto alla sua casa museo dell’Isla Negra, il poeta non ha terminato le sue infinite peregrinazioni, ma questa volta per Pablo Neruda si tratta di un viaggio verso la verità, verso le nuove frontiere della scienza che potranno infine scoprire, dall’esame tossicologico, se vi siano tracce di veleno nel suo corpo. Si saprà tra circa tre mesi se la sua morte avvenuta nel ’73 fu causata dal cancro o dalla dittatura di Pinochet. Isla Negra è un luogo di pellegrinaggio sulla costa a metà della lunga spada a cui assomiglia la cartina del Cile.

La sua casa fatta di legno e di vento di fronte all’oceano, dove il colloquio con i cileni e i suoi lettori di tutto il mondo continua da sempre, sotto forma di biglietti lasciati sulle palizzate scure, elaborati scritti d’amore, saluti come a un fratello, anche semplici frasi di passanti.

Sepolto alla destra della terza moglie Matilda Urrutia, sulla lastra dove onde sono incise anche sulla pietra, veleggiano tende bianche al vento. Potrebbero assomigliare a teli da spiaggia e invece sono state poste per non contaminare la zona, quando ieri nelle prime ore del mattino si è spezzata la cripta alla presenza del giudice Mario Carrozza, dagli avvocati, dai familiari, tra cui il nipote Rodolfo Reyes Muñoz, avvocato e rappresentante legale della famiglia, emozionato per questo evento così speciale, «in accordo con la sua linea». L’esumazione è durata un’ora circa, poi i resti sono stati traslati a Santiago alla sede del Servizio medico legale.

Il poeta potrebbe non essere morto «di pena» come pensarono tutti, solo dodici giorni dopo il colpo di stato ma di dittatura, come ha sostenuto da quarant’anni Manuel Araya il suo autista e assistente presente anche lui alla esumazione, potrebbe essere stato un assassinio politico. Alla clinica Santa Maria vide «qualcuno» fargli un’iniezione e poi lasciarlo lì senza assistenza. Neruda stesso raccontò a lui e alla moglie di essersi sentito molto male dopo un’iniezione fatta al petto. Il giorno dopo, raccontò Araya, sarebbe dovuto partire in Messico in esilio per organizzare la resistenza alla dittatura, un aereo lo stava aspettando mentre moriva. Sarebbe stato uno dei tanti esili di Neruda, il primo era stato nel ’49 quando Videla aveva messo fuorilegge il partito comunista. Tutto il paese in quei giorni era sotto il controllo dei militari, anche le cliniche private. La sua casa di Santiago al quartiere Bellavista, quella di Valparaiso, quella di Isla Negra furono perquisite, i suoi libri bruciati. Quando i militari entrarono nella sua casa di Isla Negra lui era a letto: «Scusa poeta, gli dissero, dobbiamo perquisire la casa perché ci hanno detto che ci sono cose pericolose». E Neruda rispose: «L’unica cosa pericolosa che c’è in questa casa sono le poesie». Dopo aver ricevuto il premio Nobel per la letteratura nel ’71 aveva accettato l’incarico diplomatico in Francia, dopo la sua rinuncia a candidarsi alla presidenza per sostenere Allende. Rinunciò anche all’incarico per la malattia e nonostante avesse cominciato a curarsi in Francia, vendette la casa in Normandia e tornò in Cile nel ’72, accolto trionfalmente nello stadio di Santiago. Dopo il colpo di stato la sua salute si aggravò e i militari cominciano le persecuzioni e il saccheggio, personaggio simbolico e amato ma altrettanto temuto dalla destra per la sua importanza internazionale.

Il partito comunista cileno, in clandestinità fino ai primi anni novanta e in Parlamento solo dal 2009, nel 2011 ha presentato una denuncia ufficiale, tanto da rendere possibile l’esumazione (nelle mani della magistratura cilena c’è anche il caso di morte sospetta del presidente Frei, anche lui morto nella clinica Santa Maria).