Un film fortemente voluto Rosso Isanbul, a dispetto di tensioni, rivolte, repressioni e bombe dell’Isis. Era così affascinante l’idea del ritorno di Ferzan Ozpetek nella sua città che infine il film, iniziato a girare nel 2015, poi interrotto e ripreso nel 2016 arriva il 2 marzo nelle sale. La troupe italiana è stata riportata indietro, a parte l’impavido Filippo Corticelli direttore della fotografia che è rimasto, ed è stata sostituita da famosi attori turchi. Ozpetek ormai inserito tra gli autori «italiani» pur radicato profondamente nella sua cultura, qui esplora il tema del ritorno, tra passato e presente, tra il lavoro di scrittura e regia, con un protagonista maschile (e un suo doppio) attorniato da una corte di personaggi femminili (madri, sorelle, amiche, zie e domestiche) che potrebbero rubare la scena. E tra le donne fondamentali del film è compresa anche la stessa produttrice Tilde Corsi che è riuscita a portare a termine il progetto con una produzione turca per superare tutte le enormi difficoltà legate alla difficile situazione del paese.

Il punto di partenza è stato Rosso Istanbul (Mondadori) il primo libro pubblicato dal regista che lo ha poi messo da parte al momento della realizzazione («Non mi piace rifare le stesse cose, non volevo ripartire dal romanzo che non ha neanche una forma adatta allo schermo»). Più di altri suoi film questo è ricco di notazioni autobiografiche quasi palpabili, come nella scena del trasloco dalla casa di famiglia: «In questo film svelo qualcosa del mio passato al pubblico italiano» Come il ricordo della madre scomparsa un mese e mezzo fa e a cui è dedicato il film, le case non più abitate, il Bosforo: «Quando avevo sei anni abbiamo traslocato e non potevamo portare tutti i nostri mobili nella nuova casa, così è venuto un antiquario per valutarli. Tutti quei mobili coperti da lenzuola mi sembravano fantasmi. Ho passato tutte le estati in riva al Bosforo e cercavo sempre di attraversarlo a nuoto, ma dopo dieci metri tornavo indietro perché il Bosforo fa paura». Noi però siamo abituati a vedere un paese a ferro e fuoco, e soprattutto nei film turchi non è il Bosforo a suscitare una oscura paura ma il clima generale:

«Se andiamo a Istanbul non ti arriva niente di quello che vedi in tv. Una città la fanno le persone, mentre i fatti di cronaca non cambiano una città. Da piccoli tocchi si può intuire qualcosa di più come nel continuo rumore di una trivella che scava nel profondo unito al suono di campane, il sacro e il profano insieme, un rumore inquietante, una città che cambia in continuazione, dove per fare una cosa se ne distrugge un’altra. Così non potevo non raccontare le madri «dei sabati» che si ritrovano da venti anni a reclamare la scomparsa dei figli – avviene spesso in Turchia – qui evocata dalla sparizione del regista. L’ho fatto come faccio io, sono cose che devi sentire il giorno dopo aver visto il film».

Ma i motivi  per cui Ozpetek andò via dalla Turchia non sono certo quelli raccontati nel film: «È stata una scelta, non avevo bisogno di emigrare. Stavo per andare a studiare in America a metà degli anni ’70 e ho deciso di venire in Italia. Ho fatto benissimo, ho due paesi meravigliosi, due paesi con dei guai, uno meno gravi e l’altro più gravi. Non è il caso di entrare in discorsi politici. Istanbul è una città in continuo cambiamento dove ogni giorno succede qualcosa di eclatante, di grave. Oggi ad esempio ho sentito che anche le donne soldato possono coprirsi. Ataturk aveva stabilito che le donne all’Università e nei pubblici uffici non dovevano coprirsi, ora questa legge è stata abrogata perché lede la libertà religiosa. Eppure in Turchia le donne hanno votato molto prima che in Italia».