«Per le donne la bicicletta era e resta una grande metafora del concetto ben più ampio della libertà femminile. Nel mondo islamico certo, ma direi ovunque, anche in occidente». Francesca Biancani insegna all’Università di Bologna. Nei suoi studi ha approfondito tra gli altri i temi dell’islam politico e dell’Egitto, e ha vissuto anni al Cairo.

Qual è il rapporto tra donne e bicicletta nel mondo musulmano?

Innanzitutto è sbagliato parlare di mondo musulmano immaginando un’entità monolitica, perché ci sono realtà con situazioni differenti. In alcuni paesi la donna effettivamente non può andare in bicicletta, penso all’Arabia Saudita dove c’è un divieto esplicito, ma non è ovunque così. Anzi.

Nelle grandi metropoli che succede?

Ho vissuto al Cairo per tutto il 2018, e precedentemente per periodi altrettanto lunghi. Posso dire che in una megalopoli così grande effettivamente di biciclette, e di donne in bici, se ne vedono poche. Ma il problema qui è anche di un altro tipo: mancano politiche ambientali capaci di incentivare l’uso della bicicletta. Lo smog, il traffico e la conformazione urbana non aiutano di certo. Ma anche in luoghi di questo tipo nascono movimenti che chiedono una svolta, anche dal punto di vista della mobilità. Penso alle manifestazioni del venerdì del gruppo Cairo Cycling Geckos, a cui partecipano molte donne. Si tratta per ora sopratutto di giovani donne della buona borghesia cittadina, perché nei quartieri più poveri è molto più difficile. Lì i costumi sono più conservatori e le regole del patriarcato sono molto vessatorie rispetto alle libertà femminile.

È corretto dire che l’islam ha un problema con l’uso femminile della bicicletta, oppure è uno stereotipo?

Non è l’islam in sé ad avere problemi con la bicicletta, semmai è il patriarcato e la sua ubiquità ad essere responsabile di tutto questo. Ricordo che nell’islam non esiste una specifica proibizione dell’uso della bici, esistono interpretazioni più o meno a favorevoli o contrarie a seconda della maggiore o minore misoginia di chi se ne fa interprete.

Ci fa qualche esempio?

Dell’Arabia Saudita ho già detto. Lì il wahhabismo ha imposto una norma restrittiva nei luoghi pubblici per un discorso di decenza perché, dicono, la bicicletta sarebbe un mezzo per favorire l’immoralità visto la postura indecente che la donna assume pedalando. Ma anche in un paese sciita come l’Iran divieti sono stati posti più volte, anche tramite fatwa. Anni fa ad essere molestata perché in bicicletta fu addirittura la figlia dell’ex presidente Akbar Hashemi Rafsanjani. Eppure, sempre in Iran, le donne hanno creato movimenti per rispondere a tutto questo. Il dibattito resta acceso. E’ un discorso di diritti certo, ma anche di sensibilità ecologica e ambientale.

Se questa è la cornice allora andare in bicicletta per una donna può essere un atto resistente?

Certo. Ma forse sarebbe meglio parlare di un atto di trasformazione attiva della società. Nelle grandi metropoli scegliere la bici significa per tutti promuovere uno stile di vita sano e sostenibile dal punto di vista ambientale. Se sei una donna però vuol dire qualcosa in più, e cioè affermare la libertà di scelta, e a volte di accesso agli spazi pubblici dove fare politica. Cosa sempre più importante a partire dai grandi movimenti di rivolta del 2011. Ogni tentativo di limitare l’uso della bici risponde ad un unico fine: quello di tenere le donne in casa. Anche in occidente agli albori dei movimenti femministi le suffragette definiriono la bicicletta un mezzo di emancipazione. Il tema è ampio, ed è quello della storia della libertà femminile.