Sono 296 le serie che in questo momento vengono trasmesse ogni settimana dai canali statunitensi, e questo dato si traduce in una media di circa 220 ore alla settimana di programmazione, a cui è naturalmente impossibile tener dietro. Ancora venti anni fa il loro numero era meno di un quarto di quello attuale: molti canali che oggi trasmettono telefilm un tempo non lo facevano (come la prestigiosa Amc, prima nel palinesto aveva solo grandi classici del cinema ma poi ha realizzato produzioni di alta qualità come Mad Men) o non esistevano proprio (come Netflix e Amazon). Negli anni Novanta il telespettatore medio poteva scegliere, ogni sera, tra cinque o sei possibilità al massimo: internet non era ancora un fenomeno di massa che penetra pervasivamente ogni attimo della giornata e la assorbe, come accade adesso grazie agli smartphone, rendendo disponibile un programma in qualsiasi momento e in qualsiasi luogo.

La crescita del numero dei produttori televisivi e soprattutto l’aumento esponenziale del numero di ore che è possibile dedicare alla fruizione di prodotti televisivi grazie al web ha determinato una corrispondente impennata della quantità delle serie – ma spesso anche a detrimento della loro qualità. E così la cosiddetta «golden age», l’età d’oro dei serial che sembrava inarrestabile, sta subendo in questa prima metà del 2016 ripetuti – e molto spesso bruschi stop. Solo negli ultimi mesi sono state cancellate una novantina di serie, tra vecchie e nuove di zecca, troncate dopo una manciata di puntate, il fenomeno si deve certo alla saturazione del mercato, e tuttavia sembra esserne altrettanto responsabile il modo di fruizione e la diversità del pubblico.

19vis1gameofthrones

Il binge watching – ovvero la possibilità dello spettatore tramite servizi on-demand (o anche piratando le fiction preferite…) di assistere a vere e proprie maratone tv – è stato naturalmente determinante nella creazione di un nuovo modo di vedere le serie e ha creato uno spettatore più colto, più esigente e attento a come spende il suo tempo. Non si siede davanti al televisore a guardare qualsiasi cosa venga trasmessa e va invece a cercare la nuova serie di cui ha tanto sentito parlare, trasmessa magari da un canale minore e nascosta tra le pieghe del tentacolare sistema via cavo americano o visibile solo su internet; e, soprattutto, ama interagire con le sue serie preferite: cerca articoli, immagini e video, ama leggere e scrivere di quelle storie e di quei personaggi su forum e siti.

Oggi Miami Vice, che aveva spopolato alla fine degli ’80, è improponibile. E infatti il remake di Miami Vice è stato un flop, così come altri remake di serie cult tipo Dallas, sopravvissuta a stento tre stagioni e defunta poco dopo la morte (reale) di J.R./Larry Hagman. I telespettatori sono diventati molto esigenti e non accettano più prevedibilità e pigrizia nelle sceneggiature, nonché lo scollamento dalla realtà e il narcisismo quasi ridicolo delle star che lo interpretano.

Il fenomeno del binge watching sembra opporsi all’idea di come dovrebbe funzionare il processo di domanda e offerta, e cioè regolato dalla sottrazione della disponibilità di un prodotto perché diventi prezioso (le attese per l’uscita di libri come quelli della saga di Harry Potter e per i film della saga Star Wars vanno in questa direzione) e tuttavia funziona, mentre ha smesso di funzionare la tecnica opposta: per fare spazio al gran numero di serie in produzione, infatti, alcuni network hanno adottato la tecnica dello «iato», una pausa, cioè, a metà stagione, che può durare anche qualche mese tra un episodio e l’altro. Questo eccesso di straniamento indebolisce l’attesa per le puntate, invece di aumentarla, condannando la serie a una prematura fine.

19vis1houseofcards

Fanno eccezione, come sempre, i granitici procedural che niente sembra indebolire, non gli iati, non le attese e nemmeno la frequente mancanza della cosiddetta «trama B», o il fenomeno virale degli ultimi due anni Usa, la saga black Empire. Le serie che portano al binge watching sono normalmente caratterizzate da una trama longitudinale che attraversa tutte le puntate e che è più importante della micro-trama di ogni singolo episodio. Per un pubblico la cui capacità di concentrazione è diminuita in proporzione all’aumento dell’esposizione a Facebook, Twitter e altre forme di micro-intrattenimento via internet il procedural è una forma di espressione che non richiede grande concentrazione e dunque sopravvive a qualsiasi terremoto nel mondo della televisione.

Quando tuttavia le serie richiedono una maggiore concentrazione, e per di più vengono sfilacciate nel tempo attraverso una serie di iati, lasciano un vuoto nello stomaco del telespettatore, ormai abituato alle abbuffate e che non riesce a saziarsi quando si trova di fronte a un episodio isolato, uno tra tanti altri, anche buono, buonissimo, ma che fa brontolare la sua pancia semivuota. È, in altre parole, una sorta di bulimia da super-visione a decretare la morte di diverse serie che ancora oggi si presentano alla vecchia maniera, una puntata alla volta, una puntata ogni tanto. Chi in sostanza non si è adattato alla programmazione fiume è dovuto soccombere all’ingordigia del nuovo spettatore.