13 novembre 1919, quarantadue navi da guerra britanniche, francesi, italiane e greche risalirono gli stretti dei Dardanelli dirette a Istanbul e ormeggiarono proprio davanti al nuovo palazzo reale, il Dolmabhaçe Palace, che domina le acque del Bosforo. La Sublime Porta aveva ormai perduto la guerra, Istanbul era conquistata e con questo evento epocale, cui sarebbe seguita la rivolta nazionalista repubblicana di Mustafa Kemal e la nascita della Turchia moderna, si chiusero sei secoli di storia ottomana, il più grande impero islamico al mondo. Si può ben dire che tutto ebbe inizio da lì, come ci racconta Eugene Rogan, in La grande guerra nel medio oriente La caduta degli Ottomani 1914/1920 (Bompiani, pp. XXVIII-746, euro 25,00).

La lezione di questo libro – scritto da un docente di Oxford in modo godibile e accattivante, come spesso accade con gli studiosi inglesi – è che la prima guerra mondiale ebbe un ruolo decisivo nel ridefinire in modo duraturo i confini (e i problemi) dell’area mediorientale; il quadro geopolitico allora disegnato avrebbe esibito, insomma, una straordinaria resilienza. Certo, nessuna delle battaglie combattute in quella parte del mondo ebbe la portata, tragicamente grandiosa, di quelle che segnarono la tormentata vicenda del fronte occidentale: La Marna, Verdun, la Somme, Caporetto. Ma tutto sommato, a cent’anni di distanza, i popoli europei che allora si combatterono con tutta la violenza resa possibile da nuove micidiali armi di distruzioni di massa, dagli obici alle mitragliatrici, adesso convivono pacificamente nell’Unione europea; in Medio Oriente, invece, le questioni politiche emerse nel quinquennio bellico si direbbero eternate.

È in quegli anni che emerse – di fronte al nazionalismo rampante dell’élite al potere a Istanbul, il gruppo dei cosiddetti «giovani turchi» – la questione curda; e, soprattutto, è in quegli anni, che maturò il genocidio armeno. Di fronte all’atteggiamento aggressivo della Russia, che trovava sponda nella comunità armena, il governo turco ne decise la deportazione in massa; a differenza di altre minoranze epurate, come quella greca, gli Armeni non avevano però una terra promessa in cui andare o da cui tornare: furono quasi interamente sterminati.

Tutto si può vedere, in una prospettiva generale, partendo dalla questione, così decisiva nel nostro tempo, dell’uso politico della religione e dei processi di radicalizzazione islamica. Una delle ragioni fondamentali che spinsero la Germania a chiedere con forza (e poi a ottenere) l’intervento ottomano nella guerra fu la speranza che la Porta potesse guidare la sollevazione islamica contro i propri avversari, e soprattutto contro i britannici in Egitto. A questo fine il barone Max von Oppenheim, grande conoscitore del Medio oriente e scelto personalmente dal Kaiser Guglielmo II, istituì a Berlino nell’agosto del 1914 un ufficio di propaganda panislamica allo scopo di usare il Jihad per istigare rivolte contro gli infedeli. Il sultano di Istanbul, il più importante capo politico islamico, era infatti anche la guida spirituale della religione islamica, il califfo.

Le prove generali dell’uso politico del Jihad erano già state fatte, con buoni risultati, qualche anno prima, nel 1911, in Libia, contro gli invasori italiani. I «giovani turchi» al potere a Istanbul avevano tentato di organizzare la resistenza anti-italiana facendo perno sulla Jihad lanciata dalla confraternita religiosa dei Sanussi, un ordine mistico musulmano transnazionale. E ancora, di fronte all’invasione britannica della Mesopotamia (l’attuale Iraq) e alle difficoltà di convivenza con la popolazione sciita, il governo ottomano fece svolgere atti pubblici di reverenza verso la memoria di Alì, il quarto califfo e padre spirituale del movimento sciita: addirittura, nel 1915, mentre gli inglesi muovevano verso Baghdad, veniva inviata da Istanbul, scortata da un drappello di cavalleggeri e quasi fosse un’arma segreta, la bandiera di Alì, una reliquia venerata e dotata di grande appeal tra la popolazione sciita.

È in questo contesto che si spiega la scelta britannica di giocare, in funzione anti-ottomana, la carta della rivolta delle popolazioni arabe riottose al dominio turco. E fu questo lo scenario in cui precipitò l’azione militare e diplomatica, circonfusa della nota aurea mitica, di Thomas Edward Lawrence, il famoso «Lawrence d’Arabia», uomo dell’intelligence, grande conoscitore del Medio oriente, inviato a organizzare la guerriglia araba.

Convincere i leader arabi ad abbandonare la fedeltà alla Porta, aveva come controparte la garanzia di importanti concessioni territoriali nella divisione futura delle spoglie ottomane. Il protocollo di Damasco, firmato dai principali leader arabi, fissava la richiesta di uno stato arabo indipendente nei territori ex-ottomani a cavallo tra Asia ed Africa, includente la Grande Siria (e cioè l’attuale Siria più il Libano e la Palestina), l’Arabia e la Mesopotamia. Nel 1915, in una fase difficile della guerra e di fronte alle complicazioni emerse con la disastrosa campagna di Gallipoli, il governo britannico largheggiò in promesse, come testimonia la corrispondenza tra sir Henry McMahon, luogotenente britannico in Egitto, e l’emiro Sharif Husayn, che governava una parte dell’attuale Arabia Saudita, lo Hayaz, ed era stato scelto come leader dell’insurrezione.

Rivolta araba contro Jiahd islamica, dunque: sicché i campi di raccolta dei prigionieri di guerra erano anche, da una parte e dall’altra, dei centri di reclutamento per volontari. I tedeschi, in particolare, avevano allestito vicino a Berlino un campo di internamento chiamato Halbmondlager, il campo della mezzaluna, dedicato ai prigionieri di guerra musulmani. Lì i prigionieri venivano trattati bene, e c’era anche una moschea frequentata da attivisti islamici, al soldo del governo tedesco, incaricati di raccogliere volontari. Lo stesso avveniva sul fronte alleato dove Francesi e Inglesi cercavano di arruolare prigionieri affascinati dall’eco straordinario della rivolta araba. Questi volontari entravano a far parte di eserciti estremamente compositi, costruiti mediante quella che Rogan definisce una chiamata globale alle armi: nel conflitto in Medio oriente si trovavano infatti, oltre a combattenti di molti paesi europei e ai contingenti mediorientali, truppe provenienti da ogni angolo del mondo: gurka e maori, soldati venuti dai possessi coloniali africani (Senegal, Guinea, Sudan, Maghreb) e dall’estremo Oriente (indiani, Pakistani, Australiani, Neozelandesi). Una vera Torre di babele che conferisce senso pieno all’aggettivo «mondiale» assegnato a quella guerra.

Con la continuazione del conflitto, però, contrariamente alle promesse fatte agli arabi, emersero le reali intenzioni inglesi in merito alle zone d’influenza in medio oriente, rese evidenti dal patto Sykes-Picot, stilato nel 1916 e presto divenuto pubblico: esso prevedeva il riconoscimento alla Francia della Siria, il mantenimento sotto controllo britannico della Mesopotamia, e i ricchi giacimenti petroliferi di quella zona; e la disponibilità alla creazione di uno stato ebraico in Palestina (come affermato dalla dichiarazione Balfour diffusa nel novembre 1917), atto fondato sulla convinzione dell’importanza dell’appoggio del movimento sionista sul prosieguo della guerra.

A queste scelte, destinate, e non a torto, a rianimare lo stereotipo della Perfida Albione, si può aggiungere la posizione pilatesca assunta nella lotta infra-araba, che avrebbe visto negli anni seguenti il dominio dell’alleato Sharif Husayn minacciato e poi travolto dall’ascesa di un’altra creatura occidentale, quell’Ibn Saud che dai suoi territori dell’Arabia centrale puntava alla riunificazione della penisola. La sconfitta della dinastia Hashemita (rimasta al potere oggi solo sul trono giordano) e l’ascesa di quella Saudita, portarono come conseguenza lo stabilirsi nel cuore dei luoghi sacri musulmani (Medina, La Mecca) di quella variante fondamentalista della dottrina islamica nota come il Wahabismo: anche questa un’eredità, tra le tante, di quell’evento davvero cruciale che fu la caduta dell’impero Ottomano.