Brescia, piazza della Loggia, 28 maggio 1974. Un’altra bomba fascista. Un’altra strage: otto morti e 102 feriti.

«Sono nato due anni dopo l’attentato. Tuttavia ricordo bene che mio padre mi portava fin da piccolo al cospetto della terrificante colonna in cui esplose il cestino. Mi raccontava qualcosa di terribile e leggeva nomi e cognomi di quelli che pensavo fossero nostri strani parenti. La strage di piazza Loggia è tornata a galla, quando per quattro anni ho studiato le vite rimosse delle vittime e scoperto una consanguineità, personale e politica. Ora sento che comunque, forse, sì, lo sono proprio nostri parenti», racconta lo scrittore bresciano Marco Archetti.

Si era affacciato nel 2004 come “intemperante” della nuova narrativa di MeridianoZero con il romanzo Lola Motel. Feltrinelli ha pubblicato i successivi titoli, mentre nel 2015 sono usciti I giorni non si scavalcano ispirato dal pugile Leonard Bundu e Effetto farfalla, autobiografia della ginnasta campionessa del mondo Vanessa Ferrari.

Archetti è l’autore di Una specie di vento (Chiarelettere, pagine 183, euro 16) che in modo originale ritorna in piazza della Loggia. Il debutto pubblico del libro a Brescia – con il presidente della Casa della memoria Manlio Milani, la psicoterapeuta Adelaide Baldo e le letture di Fausto Cabra e Monica Ceccardi – ha registrato un sintomatico successo di pubblico nel Teatro Santa Chiara.

Operazione tutt’altro che semplice scrivere dell’attentato alla manifestazione unitaria antifascista dopo più di 40 anni. Giusto?

Implicitamente, Milani mi aveva tracciato il sentiero: far rinascere la città con una memoria viva. Brescia ci è riuscita e deve andarne fiera. Per me, è stato difficilissimo dar voce letteraria a otto storie diverse. Ma la scrittura era sempre assediata da infinite domande, non solo sul sentirsi sul serio adeguato a un’operazione di questa portata, ma anche sullo scarto irrimediabile con le vittime “conosciute” soltanto di riflesso. Tutto comincia con il Corriere della Sera che mi commissiona otto articoli, in occasione dell’anniversario nel 2014. Così ho potuto incontrare congiunti, amici e conoscenti delle otto vittime. Per alcuni di loro era addirittura la prima volta che parlavano, alla fine di decenni di dolore infinito.

Storie vive cancellate dalla bomba. A chi appartengono? Cosa ci lega ancora all’eco di quelle otto personalità?

Sono otto vite esemplari dell’epoca. Tra l’altro, alcuni di loro avevano fondato la Cgil Scuola di Brescia perché al di là delle differenze politiche volevano tutelare finalmente la dignità dell’insegnamento. Tutti e otto, in piazza, affermavano con forza l’opzione democratica e civile. La storia di Vittorio Zambarda, che davvero spezza l’anima, non era ancora affiorata nella sua potenza da tragedia greca. Prima contadino, poi cantiniere, subisce la Repubblica di Salò e nel 1945 sposa Edera Tei. Nascono Bernardo e poi Piera. Ma otto giorni dopo il secondo parto, Edera a 30 anni si spegne dentro il suo buio. Ma Vittorio ogni due settimane andrà a trovarla, sempre, per vent’anni negli ospedali psichiatrici. Zambarda, “l’avvocato” per l’instancabile eloquio, nel dopoguerra era stato il segretario della sezione Pci di Campoverde. Il 28 maggio voleva perfezionare la pratica della pensione da manovale edile, ma gli uffici erano chiusi per lo sciopero a sostegno della manifestazione antifascista. Così Zambarda si ferma in piazza della Loggia: piove, non ha l’ombrello e si ripara nel portico. La bomba lo ferisce: perde una falange della mano e ha una gamba piena di schegge. Peggiora, ha un’embolia e muore il 16 giugno. La moglie Edera, mai autosufficiente, invece morirà in casa di riposo nel 1993 a Salò.

E gli altri?

Rispecchiano la piazza tutt’altro che monolitica. Quel giorno erano insieme sindacalisti, iscritti alla Dc, Pri o Pli, Radicali, militanti del Pci, accanto all’allora sinistra extraparlamentare. Così le storie delle otto vittime restituiscono la diversità anagrafica, intellettuale e politica. Si va dal 25enne Luigi Pinto emigrato da Foggia per insegnare in Veneto e quindi a Brescia, fino a Giulietta Bandi, 35 anni, insegnante di francese, che fa riferimento all’area dell’Autonomia Operaia e ha sposato un esponente della famiglia Bazoli. Oppure la giovane coppia di sposi Alberto Trebeschi e Clementina Calzari.

Com’è costruito, dal punto di vista non solo letterario, «Una specie di vento»? Cosa spunta dalle pieghe nei faldoni giudiziari?

Ho affidato a Redento Peroni la voce narrante di questa sorta di “Spoon River”, mentre le otto vittime parlano in prima persona. Lui è il sopravvissuto di piazza della Loggia grazie ad una significativa, fortuita, quasi incredibile circostanza. Redento è figlio di gente vessata dal fascismo: manifesta convinto. Mette di continuo la testa fuori e dentro il porticato. Finché Bartolomeo Talenti, operaio di 56 anni, non gli “ordina” di ripararsi dalla pioggia. Un passo indietro che gli salva la vita, anche se avrà poi un costante fischio nell’orecchio e soffrirà di insonnia e angoscia. Nel libro racconta quella giornata e tiene insieme le voci delle vittime fino all’ultimo capitolo. Va anche detto che Peroni aveva individuato in piazza uno strano e anomalo personaggio: «Pantaloni Carota» in base all’abbigliamento, segnalato agli inquirenti nelle prime indagini. Addirittura fu identificato, sottoposto a un confronto all’americana e riconosciuto da Peroni. Ma «Pantaloni Carota» esibirà un alibi, confermato dalla vicina: era a casa con la febbre. Così esce per sempre dalla storia processuale. E a noi resta la rabbia del dubbio…

Di tutta questa memoria di Brescia cosa “passa” nelle nuove generazioni?

Prima, però, voglio confessare che temevo il giudizio dei familiari e degli amici delle vittime e dei sopravvissuti. Per loro, le parole sono ancora carne, coscienza, dolore. Ma Redento, uomo di poche parole, nel teatro gremito mi ha guardato e detto: «Bene!». Insomma, la città non smette di ricordare piazza della Loggia. I giovani di oggi hanno la stessa distanza temporale dall’11 settembre di quella che potevo avere io dalla strage del 1974. Comunque, giro da tempo le scuole superiori e parlo molto con loro. Credo di poter affermare che, nonostante tutto, i giovani sanno “vedere” il dolore. E, quanto meno, dimostrano consapevolezza sul fatto che non bisogna cedere alle pulsioni nichiliste. Capisco bene che per le nuove generazioni terrorismo sia sinonimo di aerei che si schiantano sulle torri gemelle, mentre il Novecento sembra sfumare dentro i manuali scolastici. Ma quella del libro è storia ancora viva, come nella Casa della memoria. Se non altro, perché è ancora più assurdo aver spento otto vite con una bomba nascosta dentro un cestino il giorno della manifestazione unitaria, democratica e pacifica.