Paolo Mereghetti, Il Mereghetti.Dizionario dei Film 2017, Milano, Baldini&Castoldi, pp.5000, euro 40,00.
Perché il Mereghetti funziona? Perché è stato concepito fin dall’inizio come un work in progress, un puzzle infinito in cui è sempre possibile aggiungere qualche cosa, la riscrittura di una trama latitante, il ridimensionamento di un giudizio avventato, l’aggiunta di nuovi lemmi tematici. Una novità è la schedatura delle comiche di Charlie Chaplin. Sembra impossibile, ma una mappa così analitica e attendibile del grande Charlot, dalla Keystone alla First National, non si trova da nessuna parte, nonostante l’affollatissima bibliografia chapliniana. Sempre utile anche il Morandini 2017 (Zanichelli, pp.2080, euro 40,30) che, integrato dalla versione digitale, contiene un più ridotto numero di pagine, ma prende in considerazione anche le serie televisive. In non poche schede – quelle scritte prima del 2015 – si avverte ancora il piglio del grande critico. All’appuntamento non si sottrae neppure il Farinotti 2017 (Newton Compton, pp. 2749, euro 14,90) che con le sue 35.000 schede è il più ricco di titoli. Ma, si sa, la quantità non è tutto.
Sergio Arecco, Il cinema breve da Walt Disney a David Bowie. Dizionario del cortometraggio1928-2015, Bologna, Cineteca di Bologna, pp. 494, euro 20,00.
Quante esperienze. Quante emozioni. Quanti amori. Da Mickey Mouse che fischietta al timone del vaporetto azionando la sirena dei fumaioli nel primo sound cartoon di Walt Disney/Ub Iwerks al ballo di David Bowie nel testamentario Blackstar dove, bende sugli occhi e cerchietti oculari, si toglie la maschera del divo. Dagli irresistibili Stanlio e Ollio di James Parrot alle ambigue performance di Jean Cocteau, dal surrealismo nero di Las Hurdes che scopre l’orroroso medioevo fantastico della poverissima Estremadura alla scuola britannica che intreccia la poesia di Auden con la musica di Britten prima di far esplodere l’intensità lirica dello sguardo diaristico di Jennings. Come dimenticare gli esorcismi africani di Jean Rouch che spia le cerimonie degli sciamani, o Méditerranée di Jean-Daniel Pollet in cui l’archeologia del sapere ha le cadenze del poema in prosa, o Voir la mer di Sophie Calle alle prese con gli sguardi smarriti, affascinati, stupefatti di una ventina di persone che dalla spiaggia di Istanbul vedono per la prima volta il mare?
Bernardo Bertolucci, Cinema la prima volta. Conversazioni sull’arte e la vita, a cura di Tiziana Lo Porto, Roma, minimum fax, pp. 470, euro 20,00.
“Io sono abituato a pensare molto poco”, dice Bertolucci. “Il mito è qualcosa di fronte a cui non hai bisogno di pensare, è una certezza superiore”. Il suo cinema psicoanalitico si muove sulla soglia dell’inconscio alla ricerca delle immagini archetipe. Scoperte con struggente tenerezza, sono loro che animano la drammaturgia delle emozioni al fondo dei suoi film. Le interviste non illuminano soltanto i titoli più noti e i nodi più esplorati della sua attività ( il rapporto con la civiltà contadina, la passione per l’opera lirica, il gusto della trasgressione), ma anche film sottovalutati come La luna che, dopo tanta parte della filmografia in nome dei padri, si apre per la prima volta alla complessità della figura materna intraprendendo un altro viaggio a ritroso nelle profondità più segrete della memoria. Gli si rimprovera spesso il narcisismo autobiografico, oltre al citazionismo della cinefilia che si riallaccia all’esperienza di critico del padre Attilio. Ma forse esiste anche una diversa immagine di Bertolucci nel segno del femminile, come sembra suggerire almeno il tratto più recente della sua attività da Io ballo da sola a Io e te.
Edgar Morin, Il cinema o l’uomo immaginario, Milano, Cortina, pp. 238, euro 24,00.
Anche i libri invecchiano – è uscito per la prima volta in Francia nel ’57, ha avuto un paio di traduzioni italiane, di cui si ripubblica ora quella dell’82 – ma a volte continuano a essere imprescindibili. Cosa avremmo pensato del cinema negli agitati anni post-neorealisti, nei sorprendenti sessanta di L’avventura, La dolce vita, Rocco e i suoi fratelli, se non ci fossimo imbattuti nella prima, inadeguata traduzione di Le cinéma ou l’homme imaginaire e subito dopo nell’Industria culturale e nei Divi? Sono stati fondamentali per consentirci di filtrare con un’altra tradizione culturale – quella francese che da Sartre risaliva a Epstein, senza dimenticare tutta l’esperienza della Revue Internationale de Filmologie, ancor oggi solo in parte esplorata – il dibattito italiano sul realismo in cui l’immaginario, la cultura di massa, gli stessi attori-divi erano guardati con sospetto. I libri di Morin con tutte le loro approssimazioni ci aiutarono a entrare nella modernità prima del decollo delle scienze umane. Me lo ricordo ancora il grande studioso della complessità mentre in un’aula del Dams di Bologna continuava a parlare a raffica scrivendo alla lavagna le formule segrete del suo sapere immenso.
Domenico Monetti e Luca Pallanch, Fabio e Mario Garriba, i gemelli terribili del cinema italiano, Roma, Edizioni di Bianco e Nero/ Iacobelli, pp. 115, euro 9,90.
Dopo Il caso Tretti, un’altra immersione nelle acque profonde del cinema sommerso italiano, nel cinema invisibile, dimenticato, almeno fino a quando non se ne occupano Monetti & Pallanch. Certo, Mario non si è più ripreso dal Pardo d’oro vinto nel ’71 a Locarno con In punto di morte targato Csc. La clamorosa vittoria/sconfitta – qualcosa di simile accadrà anche per Corse a perdicuore (1979 ), in cui all’ultimo momento Andy Luotto sostituisce Roberto Benigni – segna l’analisi del sistema cinematografico italiano, i suoi equivoci, i suoi inganni, la sua refrattarietà al talento che, lucidissima e impietosa, si ritrova negli scritti dello studioso. Ancor più bruciante lo spreco della trasgressiva genialità cinematografica di Fabio che, dopo I parenti tutti del ’67, il suo short di regia al Centro, si affida al video, alla poesia, alla pittura. Se sono apparsi anche nei loro film, il paradosso dei gemelli Garriba è la loro fitta filmografia d’attore, da Non ho tempo di Giannarelli, a Sogni d’oro e Bianca di Moretti, da La cosa buffa di Lado a La terrazza di Scola, altrettante presenze che rimandano all’assenza, ai film non fatti, ai progetti irrealizzati.
Gianni Amelio, Francesco Munzi, L’ora di regia, Roma/Soveria Mannelli, Centro Sperimentale di Cinematografia/Rubbettino, pp. 157, euro 14,00.
“Hitchcock, che amava considerare i suoi film altrettante fette di torta, poteva permetterselo”, dice Amelio,”perché aveva questa capacità di amalgamare i suoi elementi, dal soggetto fino al trucco dell’attrice, che lo rende il più grande maestro di regia. E’ da Hitchcock che bisognerebbe partire, e non mollarlo mai. Il suo cinema è un libro aperto, un sillabario, un testo scientifico, tutto. Ti insegna i tempi, direi il ‘respiro’ della inquadratura”. La chiacchierata tra Gianni Amelio e Francesco Munzi, tra un ex maestro e un ex allievo, è la continua messa in discussione dei ruoli e delle regole. La posta è alta. Sembra che si stia parlando della insegnabilità o meno della regia, mentre ci si chiede cos’è il cinema. Quanto nel cinema conti l’errore, l’imprevisto, il caso. Quanto il mestiere si misuri con la sceneggiatura e con la produzione. Sulla dialettica imparare/insegnare Amelio non esita a dire: “Ho imparato più come docente, cercando di spiegare il senso di un carrello, che non da tutti i carrelli che avevo fatto prima come regista”.
Mario Monicelli, La commedia umana. Conversazioni con Sebastiano Mondadori, Milano, il Saggiatore, pp. 340, euro 24,00.
“ Eravamo un gruppo di quaranta, cinquanta persone tra registi, sceneggiatori, attori, direttori della fotografia, scenografi e costumisti. Ci frequentavamo, parlavamo, mangiavamo insieme, giocavamo a calcio. Era una bella compagnia”. Tra una pagina e l’altra di queste intense conversazioni ritornano in mente incontri, aneddoti, incazzature (frequenti), risate (rare) del grande, indimenticabile Mario, per il quale il cinema, anche il suo, soprattutto il suo, avrebbe dovuto coincidere con la memoria collettiva. Nella sequenza del Luna Park di I soliti ignoti, Cosimo nel goffo tentativo di recuperare la leadership della banda, da una delle piccole vetture dell’autoscontro guidata da un ragazzino, indica quella del rivale dicendo: “Segui quella macchina”. Splendida battuta da film gangster, il passaggio di testimone tra Carotenuto e Gassman è la soglia mediologica che attraversa con allegria, malinconica e irresistibile, gli snodi affrontati negli anni precedenti e in quelli successivi dal cinema popolare italiano, tra il comico che non c’è più e la commedia all’italiana che non c’è ancora.
Massimo Zanichelli, Ilaria Floreano, Amori fatali. Grandi passioni tra cinema e realtà, Recco-Genova, Le Mani, pp. 356, euro 20,00.
Che bella idea cominciare il libro nel nome di Louise Brooks. Se il divismo vive di paradossi, il paradosso più clamoroso è proprio lei. Senza mai aver fatto parte dell’olimpo hollywoodiano e con una fama affidata a tre film girati in Europa, è una delle grandi attrici-mito del cinema muto, una delle pochissime in grado di durare nel tempo. Nella metà degli anni sessanta il suo volto luminoso, inquadrato dal caschetto di capelli neri, è un’icona a cui si ispira la saga onirica di Valentina di Guido Crepax, che intrattiene con lei un breve ma toccante carteggio. “Dear Guido, grazie per il bel libro a fumetti. Potrebbe Valentina essere la perduta Louise Brooks? Soltanto quando lo confessiamo, troviamo noi stessi e viviamo davvero”. “Cara Louise, il tuo modo triste e amaro di ripensare a quello che hai ottenuto nella vita mi ha commosso. Nei film che ho visto tu eri il simbolo meraviglioso di qualcosa che non andrà mai perduto. Con affetto, Guido”. Nel frattempo aveva pubblicato Lulù a Hollywood, che rivela una vera scrittrice in grado di raccontare con ironia un’intera epoca.