Il corpo e i diritti, My body: my right. S’intitola così il manifesto diffuso da Amnesty International per la giornata delle donne. Contiene 7 principi e una domanda: chi controlla il tuo corpo? I principi che Amnesty chiede di sottoscrivere attengono alle libertà sessuali e riproduttive, ma anche all’educazione e all’informazione necessarie per compiere scelte consapevoli e agli spazi di agibilità politica per influire sulle leggi e sui decisori. La presenza del punto 2 – «Cercare di abortire – o aiutare qualcuno a farlo – NON ci rende criminali» – la dice lunga sui passi indietro compiuti, anche in Italia, in questo ambito.

La sovranità della donna sul proprio corpo – bandiera insindacabile negli anni che hanno prodotto leggi avanzate e garantiste – è diventata un fortino da difendere da costrizioni economiche e pressioni simboliche dovute al ritorno di familismo e marianesimo. E così, fa riflettere anche il punto 3: «I servizi sanitari di qualità, a costi sostenibili e nel rispetto della riservatezza compreso l’accesso alla contraccezione, non sono un lusso, sono un diritto umano». Parlare di welfare e gratuità dei servizi è diventata quasi una bestemmia.
A 104 anni dall’8 marzo del 1857, quando morirono nell’incendio le operaie in sciopero in una fabbrica tessile di New York, nelle fabbriche ad alto sfruttamento si continua però a morire: è successo in Bangladesh solo 3 anni fa, quando 110 operaie che producevano per la Disney hanno perso la vita in un incendio. Epperò, non ci sono più le comuniste e le socialiste che, guidate da Clara Zetkin, allora dedicarono alle operaie un 8 marzo di lotta e la speranza di un’altra società.

Invece, anche analizzando i dati contenuti nell’ultimo Rapporto di Amnesty sui diritti (edito da Castelvecchi), emerge l’urgenza di coniugare libertà e giustizia sociale, anticorpo indispensabile contro guerre, soprusi e impunità. Medici senza frontiere mette l’accento sui problemi sanitari delle adolescenti e rileva che il 95% delle gravidanze precoci avviene nei paesi in via di sviluppo e che la mortalità materna è la seconda causa di morte tra i 15 e i 19 anni. «In molti paesi – scrive – ragazze e giovani donne in particolare, spesso non ricevono un’educazione sessuale di base né informazioni sulla salute riproduttiva e devono affrontare notevoli barriere per accedere all’assistenza sanitaria. In alcune culture le donne non hanno la possibilità di prendere le proprie decisioni sulla salute».

Certo, il patriarcato viene prima del capitalismo, ma nei paesi in cui le donne hanno accesso ai diritti elementari, prima di tutto al lavoro e all’istruzione, la loro condizione cambia. E laddove hanno più potere – potere di sé e di poter fare – la differenza di genere diventa forza. «Se non fossi stata ministra della Difesa non avrei mai potuto essere eletta presidente», ha detto Michelle Bachelet. La presidente cilena, che in precedenza ha diretto Onu Mujer, a fine febbraio ha organizzato in Cile un incontro internazionale di alto livello dal titolo: «Le donne nel potere e nelle decisioni: costruendo un mondo differente». Bachelet ha presentato i progressi compiuti dal suo governo per sostenere le donne «in particolare le più povere» e per aumentare l’assistenza ai bambini e agli anziani «in modo che questo non pesi più su di loro e possano trovare un lavoro e realizzarsi». Ha illustrato l’indirizzo adottato per modificare leggi e istituzioni. «Certo – ha detto -, il Cile ha eletto per la seconda volta una donna alla presidenza, la nostra presidente del Senato è una donna, la leader dei lavoratori, Barbara Figueroa, è una donna, e varie dirigenti del movimento degli studenti sono donne. Tuttavia, il Cile non è il paradiso per le donne». Infatti, il parlamento è ancora composto all’84% da uomini, e con quella composizione verrà discussa la proposta di legge sull’aborto.

Le cose non vanno certo meglio per le donne di altri continenti. Amnesty segnala che, in Afghanistan, i primi sei mesi del 2014 hanno fatto registrare 4.154 casi di violenza contro le donne. Violenze di genere commesse all’interno delle famiglie, ciò che ha reso impossibile l’azione giudiziaria.

Oggi, il popolo curdo dedica l’8 marzo alla rivoluzione delle donne del Rojava e alla resistenza delle Unità di difesa delle donne (Ypj), che in Siria «combattono la loro guerra di Liberazione dall’Isis e difendono anche la nostra libertà».

Lo Sciopero globale delle donne lancia invece una petizione internazionale per «Un salario degno per le madri e per altre lavoratrici di cura».
E, in Italia, la Rete Nazionale dei centri anti-violenza (DiRe) affida alla giornata una domanda per il governo Renzi: «Che fine ha fatto Piano Nazionale contro la violenza alle donne annunciato da oltre un anno?».